Выбрать главу

Le donne vennero a prendere i cavalli. Si spalancarono grandi porte di legno levigato. Lur mi condusse oltre la soglia.

Molte fanciulle si fecero avanti, portando vino. Bevvi, assetato. La bizzarra euforia ed il senso di distacco s’intensificavano. Mi sembrava di essermi destato da un lungo, lungo sonno, e non ero completamente desto, ancora turbato dai ricordi dei sogni. Ma ero sicuro che non erano stati tutti sogni. Il vecchio sacerdote che mi aveva destato nel deserto che un tempo era stato la fertile terra degli Ayjir… Non era stato un sogno. Eppure la gente tra cui mi ero destato non era stata il popolo degli Ayjir. Questa non era la terra degli Ayjir, eppure gli abitanti appartenevano all’antica stirpe! Come ero giunto fin lì? Dovevo essermi addormentato di nuovo nel tempio dopo che… dopo che… per Zarda, dovevo farmi strada a tentoni! Essere prudente. Poi venne un impulso implacabile che spazzò via ogni pensiero di prudenza, una ruggente gioia di vivere, una libertà frenetica, come di colui che, rinchiuso a lungo in un carcere, vede all’improvviso le sbarre spezzarsi e davanti a sé la tavola imbandita della vita, con tutto ciò che gli era stato negato, lì a sua disposizione. E immediatamente dopo venne la fulminea certezza che io ero Leif Langdon e sapevo perfettamente come ero giunto in quel luogo, sapevo che in un modo o nell’altro dovevo ritornare a Evalie ed a Jim. Questi ultimi lampi erano rapidi come il fulmine, e altrettanto brevi.

Mi accorsi che non ero più nell’atrio del castello, bensì in una camera più piccola, ottagonale, con finestre a due battenti e le pareti coperte di tappezzerie. C’era un letto ampio e basso. C’era una tavola luccicante d’oro e di cristalli; su di essa ardevano alte candele. La mia blusa era sparita, e al suo posto indossavo una leggera tunica di seta. Le finestre erano aperte, e l’aria fragrante entrava frusciando. Mi affacciai. Sotto di me c’erano le torrette, più piccole ed il tetto del castello. Molto più sotto si stendeva il lago. Guardai da un’altra finestra. La cascata, con le sue fantasime ondeggianti, bisbigliava e chioccolava a meno di trecento metri.

Sentii sul capo il tocco di una mano che poi mi scivolò sulla spalla. Mi voltai di scatto. L’Incantatrice era accanto a me.

Mi parve di rendermi conto soltanto allora, per la prima volta, della sua bellezza, di vederla chiaramente per la prima volta. I capelli color ruggine erano intrecciati e acconciati a corona: splendevano come oro rosso, e vi era allacciato un filo di zaffiri. Ma i suoi occhi erano più splendenti di quelle gemme. La succinta veste di mussolina azzurra rivelava ogni incantevole, sensuale linea del suo corpo. Le spalle candide ed uno dei seni squisiti erano scoperti. Le turgide labbra rosse promettevano… tutto, e nonostante la sottile crudeltà che vi era impressa, affascinavano.

C’era stata una ragazza bruna… chi era? Ev… Eval… il nome mi sfuggiva… non importava… era come uno spettro in confronto a quella donna… come una delle fantasime di nebbia che aleggiavano ai piedi della cascata…

L’Incantatrice lesse ciò che vi era nei miei occhi. La sua mano mi lasciò la spalla, mi si posò sul cuore. Si piegò, più vicina, con gli azzurri occhi languidi… eppure stranamente intenti.

«E tu sei veramente Dwayanu?»

«Sì… nessun altro, Lur.»

«Chi era Dwayanu… tanto e tanto e tanto tempo fa?»

«Questo non so dirtelo, Lur… Ho dormito molto a lungo e nel sonno ho dimenticato molte cose. Eppure… io sono lui.»

«E allora guarda… e ricorda.»

La sua mano lasciò il mio cuore, mi si posò sulla testa; Lur indicò la cascata. Lentamente il suo fruscio cambiò, divenne un rullo di tamburi, il trepestìo dei cavalli, il passo di uomini in marcia. Quei suoni diventarono più forti e più forti. La cascata fremette, spiegandosi sopra il precipizio nero come una gigantesca cortina. Da ogni parte le fantasime di nebbia accorrevano, fondendosi in essa. I tamburi suonavano, sempre più nitidi. E all’improvviso la cascata svanì. Al suo posto c’era una grande città circondata da mura. Due eserciti stavano combattendo, ed io sapevo che le forze degli assedianti venivano ricacciate. Udii il tuono degli zoccoli di centinaia di cavalli. Contro i difensori si avventò una fiumana di cavalieri. Il loro comandante indossava una lucente cotta di maglia. Non aveva elmo, ed i capelli gialli sventolavano nell’aria, dietro di lui. Girò la testa. E il suo volto era il mio! Udii un urlo ruggente: «Dwayanu!» La carica colpì come un fiume in piena, travolse i difensori, li sommerse.

Vidi un esercito in rotta, disperso da compagnie armate di martelli da lancio.

Cavalcai con il comandante dai capelli gialli, entrando nella città espugnata. E sedetti con lui su un trono conquistato mentre implacabile e spietato mandava a morte gli uomini e le donne trascinati davanti a lui, e sorrideva alle voci di rapina e di saccheggio che si levavano all’esterno. Cavalcai e sedetti con lui, ho detto, perché non ero più nella camera dell’Incantatrice, bensì con quell’uomo dai capelli gialli che era il mio gemello, e vedevo ciò che lui vedeva, udivo ciò che lui udiva… e pensavo ciò che lui pensava.

Battaglie dopo battaglie, tornei e festini e trionfi, cacce con i falconi e cacce con i grandi cani nella bella terra degli Ayjir, il gioco del martello e il gioco dell’incudine… Io li vidi, sempre accanto a Dwayanu come un’ombra invisibile. Andai con lui nei templi, quando adorava gli dèi. Andai con lui al Tempio del Dissolutore… il Nero Khalk’ru, più Grande degli Dèi… e lui portava l’anello che riposava sul mio petto. Ma quando egli entrò nel tempio di Khalk’ru, io mi fermai. La stessa resistenza profonda ed ostinata che mi aveva bloccato quando avevo avuto la visione del portale del tempio dell’oasi mi fermò. Udii due voci. Una mi esortava ad entrare con Dwayanu. L’altra sussurrava che non dovevo farlo. E non potevo disobbedire a quella voce.

E poi, all’improvviso, la terra degli Ayjir svanì. Stavo guardando la cascata e le aleggianti fantasime di nebbia. Ma… ero Dwayanu!

Ero interamente Dwayanu! Leif Langdon aveva cessato di esistere!

Eppure aveva lasciato ricordi… ricordi che erano sogni ricordati a mezzo, ricordi di cui non riuscivo a sondare l’origine: ma sapevo che, pur essendo soltanto sogni, erano veritieri. Mi dicevano che la terra degli Ayjir su cui avevo regnato era scomparsa completamente, come il suo fantasma che avevo visto nella cascata; che da allora erano trascorsi secoli e secoli polverosi, che altri imperi erano sorti e caduti; che quella era una terra aliena e serbava soltanto un barlume dell’antica gloria.

Ero stato re-guerriero e sacerdote-guerriero, e avevo tenuto nelle mie mani un impero e le vite ed i destini di un’intera razza.

Ora… non più!

XVI

I BACI DI LUR

Una cupa angoscia e ceneri amare erano nel mio cuore, quando voltai le spalle alla finestra. Guardai Lur. Dai piedi snelli fino alla testa splendente la guardai, e la cupa angoscia si attenuò e le ceneri amare si dispersero.

Le posai le mani sulle spalle e risi. Luka aveva fatto girare la sua ruota e ne aveva fatto volar via dall’orlo il mio impero, come polvere dal tornio del vasaio. Mi aveva però lasciato qualcosa. In tutta l’antica terra degli Ayjir c’erano state ben poche donne come quella.

Sia lode a Luka! Un sacrificio a lei, domattina, se questa donna si rivelerà per ciò che penso che sia!

Il mio impero scomparso! Che importava? Ne avrei costruito un altro. Mi bastava di essere vivo!

Risi ancora. Misi la mano sotto il mento di Lur, alzai il suo viso verso il mio, posai le labbra sulle sue. Lei mi respinse. C’era collera nei suoi occhi… e dubbio, sotto la collera.

«Mi hai ordinato di ricordare. Ebbene, ho ricordato. Perché hai spalancato le porte della memoria, Incantatrice, se non avevi deciso di accettare ciò che ne sarebbe uscito? Oppure sapevi di Dwayanu meno di quanto hai finto di sapere?»