«Sei tu, Ouarda?»
«Sì, padrona. Un messaggero da parte di Tibur.»
Io risi.
«Digli che sei occupata con i tuoi dèi. Lur.»
Lur piegò la testa sulla mia, in modo che la tenda serica ci coprisse entrambi.
«Digli che sono occupata con gli dèi, Ouarda. Può attendere fino a domattina… o ritornare da Tibur con questo messaggio.»
Si lasciò ricadere, premette le labbra sulle mie…
Per Zarda! Era come un tempo… nemici da uccidere, una città da saccheggiare, una nazione da combattere e le morbide braccia di una donna che mi cingevano.
Ero soddisfatto!
IL LIBRO DI DWAYANU
XVII
IL GIUDIZIO DI KHALK’RU
Per due volte la notte verde aveva colmato la coppa della terra al di sotto del miraggio, mentre io banchettavo e bevevo con Lur e con le sue donne. C’erano state gare di spada e di martello, e di lotta. Erano autentici guerrieri… quelle donne! Acciaio temperato sotto pelle di seta, talvolta mi mettevano in difficoltà… per quanto fossi forte ed agile. Se i soldati di Sirk erano come quelle donne, non sarebbe stata una conquista facile.
Dalle occhiate che mi lanciavano e dalle parole bisbigliate sottovoce capivo che non mi sarei sentito solo, se Lur fosse andata a Karak. Ma non vi andò; era sempre al mio fianco, e da parte di Tibur non vennero altri messaggeri; o se vennero, io non lo seppi. Lur aveva inviato al Gran Sacerdote, in segreto, la notizia che aveva avuto ragione lui: non avevo il potere di evocare Colui che era più Grande degli Dèi; ero un impostore o un pazzo. O almeno, così mi disse lei. Non sapevo se avesse mentito a Yodin o se avesse mentito a me… e non me ne importava molto. Ero troppo occupato… a vivere.
Tuttavia, non mi chiamava più Capelli Gialli. Mi chiamava sempre Dwayanu. E tutte le sue arti d’amore — e l’Incantatrice non era una novizia — le usava per avvincermi più strettamente a lei.
Era l’alba del terzo giorno; io ero affacciato alla finestra, e osservavo i nebbiosi fuochi gemmati dei gigli luminosi che sbiadivano, le fantasime vaporose che erano schiave della cascata e si alzavano sempre più lentamente. Credevo che Lur dormisse. La sentii muoversi e mi voltai. Era seduta e mi sogguardava tra i veli rossi dei suoi capelli. In quel momento era veramente l’Incantatrice…
«Questa notte è arrivato un messaggero di Yodin. Oggi tu pregherai Khalk’ru.»
Un fremito mi scosse; il sangue mi cantò nelle orecchie. Mi sentivo sempre così, quando dovevo evocare il Dissolutore… un senso di potenza che superava anche quello dato dalla vittoria. Era diverso… un senso di potenza e d’orgoglio disumani. E insieme una collera profonda, la ribellione contro l’Essere che era il nemico della Vita. Il dèmone che si nutriva della carne e del sangue… e dell’anima della terra degli Ayjir.
Lur mi stava osservando.
«Hai paura, Dwayanu?»
Le sedetti accanto, scostai i veli dei suoi capelli.
«È per questo che hai raddoppiato i tuoi baci questa notte, Lur? Perché erano così… teneri? La tenerezza, Incantatrice, ti sta bene… ma in te è strana. Eri tu ad avere paura? Per me? Tu mi addolcisci, Lur!»
Gli occhi le balenarono, il volto le avvampò alla mia risata.
«Tu non credi che io ti ami, Dwayanu?»
«Non quanto ami il potere, Incantatrice.»
«Tu mi ami?»
«Non quanto amo il potere, Incantatrice,» risposi; e risi di nuovo.
Lei mi studiò ad occhi socchiusi. Poi disse: «A Karak si parla molto di te. Stai diventando una minaccia. Yodin rimpiange di non averti ucciso quando avrebbe potuto farlo… ma sa bene che sarebbe stato anche peggio. Tibur rimpiange di non averti ucciso quando sei uscito dal fiume… dice che non si deve più perdere tempo. Yodin ti ha proclamato falso profeta ed ha promesso che Colui che è più Grande degli Dèi ti smaschererà. Crede a ciò che gli ho detto… o forse tiene nascosta una spada. Tu…» Una vaga ironia s’insinuò nella sua voce. «Tu, che sai leggere in me tanto facilmente, di sicuro puoi leggere anche in lui e difenderti! Il popolo mormora: molti nobili chiedono che tu venga mostrato pubblicamente; ed i soldati seguirebbero con entusiasmo Dwayanu… se ti credessero veramente lui. Sono irrequieti. Corrono molte dicerie. Sei diventato immensamente… scomodo. Perciò oggi affronterai Khalk’ru.»
«Se tutto questo è vero,» dissi io, «credo che non dovrei evocare il Dissolutore per impadronirmi del potere.»
Lur sorrise.
«Non è un pensiero molto astuto. Verrai sorvegliato attentamente. Ti ucciderebbero, prima che tu avessi il tempo di radunare attorno a te una dozzina di persone. Perché no… dato che non avrebbero nulla da perdere uccidendoti? E magari, qualcosa da guadagnare. E poi… le promesse che mi hai fatto?»
Le cinsi le spalle con le braccia, la sollevai e la baciai.
«In quanto a lasciarmi uccidere… bene, avrei da dire anche la mia. Ma stavo scherzando, Lur. Io mantengo le promesse.»
Dal camminamento venne un galoppare di cavalli, un tintinnare di finimenti, il frastuono dei tamburi. Andai alla finestra. Lur balzò dal letto e mi venne accanto. Lungo il camminamento rialzato stavano arrivando cento e più cavalieri. Dalle loro lance garrivano orifiamma gialli con il simbolo nero di Khalk’ru. Si fermarono davanti al ponte levatoio aperto. Alla loro testa riconobbi Tibur, le spalle ampie coperte da un manto giallo, e il Kraken sul petto.
«Vengono per condurti al tempio. Debbo lasciarli passare.»
«E perché no?» ribattei, indifferente. «Ma non andrò a nessun tempio senza aver prima fatto colazione.»
Guardai di nuovo Tibur.
«E se devo cavalcare a fianco del Fabbro, spero che tu abbia una cotta di maglia adatta a me.»
«Tu cavalcherai al mio fianco,» disse Lur. «In quanto alle armi, potrai scegliere. Tuttavia non hai niente da temere, sulla strada del tempio… il pericolo è dentro.»
«Tu parli troppo di paura, Incantatrice,» dissi, aggrottando la fronte. «Suona il corno. Tibur può pensare che non abbia voglia di vederlo. Ed io non voglio che lo creda.»
Lur suonò il segnale per la guarnigione del ponte levatoio. Lo udii abbassarsi scricchiolando mentre facevo il bagno. Poco dopo, i cavalli scalpitarono davanti alla porta del castello. Entrò l’attendente di Lur, che si allontanò insieme a lei.
Mi vestii, tranquillamente. Mentre mi avviavo verso la grande sala, mi fermai nell’armeria. C’era una spada che avevo notato e che mi piaceva. Aveva il peso cui ero abituato: era lunga, curva, di metallo eccellente, come quelle che avevo visto nella terra degli Ayjir. La soppesai nella sinistra e ne presi una più leggera con la destra. Ricordai che qualcuno mi aveva detto di guardarmi dalla mano sinistra di Tibur… ah, sì, la soldatessa. Risi… Bene, anche Tibur doveva guardarsi da me. Presi un martello, meno pesante di quello del Fabbro… quella era la sua vanità, ma i martelli più leggeri si controllavano più agevolmente. Mi fissai all’avambraccio la forte fascia che ne reggeva la cinghia. Poi scesi incontro a Tibur.
Nell’atrio c’era una dozzina di nobili Ayjir, quasi tutti uomini. Lur era con loro. Notai che aveva piazzato le sue soldatesse in posizioni strategiche, e che erano tutte bene armate. Lo considerai una prova della sua buona fede, sebbene smentisse ciò che mi aveva detto: che non avevo pericoli da temere fino a quando fossi giunto al tempio. Non trovai nulla da eccepire nell’accoglienza di Tibur, né in quella degli altri, eccettuato uno. C’era un uomo, accanto al Fabbro, che era alto quasi come me. Aveva freddi occhi azzurri, dal singolare sguardo inespressivo che distingue l’assassino nato. Una cicatrice lo segnava dalla tempia sinistra al mento, e aveva il naso spezzato. Era quel tipo d’uomo, riflettei, che nei tempi andati io avrei mandato contro qualche tribù ribelle. C’era in lui un’arroganza che m’irritava, la repressi. Non avevo intenzione di provocare conflitti in quel momento. Non volevo destare sospetti nella mente del Fabbro. Il mio saluto a lui ed agli altri aveva quasi una sfumatura apprensiva, conciliante.