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Mantenni lo stesso atteggiamento mentre facevamo colazione e bevevamo. Una volta, però, mi fu difficile. Tibur si chinò verso lo sfregiato, ridendo.

«Ti avevo detto che era più alto di te, Rascha. Lo stallone grigio è mio!»

Gli occhi azzurri mi squadrarono, e mi sentii gonfiare il petto.

«Lo stallone è tuo.»

Tibur si sporse verso di me.

«Lo chiamano Rascha lo Spaccaschiene. Dopo di me, è il più forte, a Karak. Peccato che tu debba incontrare tanto presto Colui che è più Grande degli Dèi. Un duello tra voi due meriterebbe di essere visto.»

Il mio furore crebbe a quelle parole, e la mia mano calò sulla spada: ma riuscii a trattenermi e risposi con un tono d’impazienza.

«È vero… forse si può procrastinare l’incontro…»

Lur aggrottò le sopracciglia e mi fissò, ma Tibur abboccò all’esca, con gli occhi scintillanti di malizia.

«No… c’è uno che non può attendere. Ma dopo… forse…»

La sua risata fece tremare il tavolo. Gli altri gli fecero eco. Lo sfregiato sogghignò. Per Zarda, è intollerabile! Attento, Dwayanu, così li ingannavi nei tempi andati, e così devi ingannarli adesso!

Vuotai il calice, e poi ancora un altro. Partecipai alla loro risata… come se mi chiedessi perché stavano ridendo. M’impressi però nella memoria le loro facce.

Ci avviammo a cavallo lungo il camminamento rialzato, con Lur alla mia destra, protetti da un serrato semicerchio formato dalle sue soldatesse scelte. Davanti a noi venivano Tibur e lo Spaccaschiene con una dozzina dei più forti seguaci del Fabbro. Dietro di noi la schiera con gli stendardi gialli, e poi un’altra schiera delle guardie dell’Incantatrice.

Io cavalcavo con una calcolata espressione depressa. Ogni tanto il Fabbro ed i suoi accoliti si voltavano a guardarmi. E udivo le loro risa. L’Incantatrice taceva, come me. Mi guardava di sottecchi, e ogni volta che questo avveniva io abbassavo ancora un poco la testa.

La cittadella nera grandeggiò davanti a noi. Entrammo nell’abitato. Ormai la perplessità nell’espressione di Lur si era quasi tramutata in disprezzo, e la risata del Fabbro era diventata derisoria.

Per le strade si affollavano gli abitanti di Karak. Io sospirai, finsi di fare uno sforzo per liberarmi dall’avvilimento, ma continuai a cavalcare apatico. E Lur si morse le labbra, mi si avvicinò, corrugando la fronte.

«Mi hai ingannato, Capelli Gialli? Sembri un cane bastonato!»

Girai il capo, perché non potesse vedermi in faccia. Per Luka, era difficile reprimere una risata!

Tra la folla vi erano bisbigli e mormoni. Né grida, né acclamazioni. I soldati erano dappertutto, armati di spade e di martelli, lance e le picche pronte. C’erano anche molti arcieri. Il Grande Sacerdote non era disposto a correre rischi.

E neppure io.

Non avevo intenzione di causare un massacro. E neppure di offrire a Tibur il minimo pretesto per eliminarmi, di scatenarmi contro una grandine di lance e di frecce. Lur era convinta che per me non ci fosse pericolo lungo il tragitto fino al tempio, ma nel tempio stesso. Io sapevo che la verità era esattamente l’opposto.

Quindi non fu un eroe vincitore, né un redentore, né uno splendido guerriero venuto dal passato che cavalcò attraverso Karak, quel giorno. Era un uomo insicuro di se stesso… o meglio, troppo sicuro di ciò che l’aspettava. La popolazione che aveva atteso Dwayanu lo sentiva… e mormorava o taceva. Il Fabbro se ne rallegrava. E me ne rallegravo anch’io, che ormai ero ansioso d’incontrare Khalk’ru quanto uno sposo è ansioso di incontrare la sua promessa. E non volevo correre il rischio di venire fermato da una spada o da un martello, da una lancia o da una freccia, prima d’incontrarlo.

E il cipiglio sul volto dell’Incantatrice si faceva sempre più cupo, più intensi il disprezzo ed il furore nei suoi occhi.

Aggirammo la cittadella, e prendemmo un’ampia strada che portava verso i precipizi. Procedemmo al galoppo, con gli stendardi al vento, i tamburi che rullavano. Arrivammo ad una gigantesca apertura nella parete rocciosa… avevo varcato molte volte una porta come quella! Smontai, esitando. Quasi con riluttanza, mi lasciai guidare da Tibur e da Lur oltre la soglia, in una piccola camera scavata nella pietra.

Mi lasciarono solo, senza una parola. Mi guardai intorno. C’erano gli scrigni che contenevano i paramenti cerimoniali, la fonte della purificazione, i vasi per l’unzione dell’evocatore di Khalk’ru.

La porta si aprì. Mi trovai davanti Yodin.

Aveva un’espressione di vendicativo trionfo, e compresi che aveva incontrato il Fabbro e l’Incantatrice, e che gli aveva detto del mio atteggiamento. Come una vittima che andava al Sacrificio! Bene, Lur poteva dirgli, in tutta sincerità, quello che lui sperava fosse vero. Se lei avesse avuto l’idea di tradirmi… se mi aveva tradito… ora mi credeva un bugiardo vanaglorioso, con lo stesso diritto di Tibur e degli altri. Se non mi aveva tradito, io avevo confermato la menzogna che aveva riferito a Yodin.

Dodici sacerdoti di rango inferiore entrarono, in fila, dietro di lui, abbigliati delle vesti sacre. Il Gran Sacerdote portava il camice giallo con i tentacoli avvinghiati attorno al corpo. Al pollice gli splendeva l’anello di Khalk’ru.

«Colui che è più Grande degli Dèi attende la tua preghiera, Dwayanu,» disse. «Ma prima devi sottoporti alla purificazione.»

Annuii. I sacerdoti incominciarono i riti necessari. Li subii impacciato, come se non li conoscessi, e volessi far credere di esserne esperto. La malizia crebbe negli occhi di Yodin.

I riti finirono. Yodin prese un camice identico al suo da uno degli scrigni, e me lo drappeggiò addosso. Io attesi.

«L’anello!» mi ricordò lui, sardonicamente. «Hai dimenticato che devi portare l’anello!»

Tastai la catena che avevo al collo, aprii il medaglione e mi infilai l’anello al pollice. Gli altri sacerdoti uscirono dalla camera, reggendo i tamburi. Li seguii, a fianco del Gran Sacerdote. Udii il clangore di un martello che percuoteva una grande incudine. Riconobbi la voce di Tubalka, il più vecchio degli Dèi, che aveva insegnato all’uomo come sposare il fuoco e il metallo. Era il riconoscimento, il saluto e l’omaggio di Tubalka a… Khalk’ru!

L’esaltazione abituale, l’estasi del potere tenebroso si riversarono in me. Era difficile non tradirle. Uscimmo dal corridoio, nel tempio.

Avevano trattato bene, in quel lontano sacrario, Colui che era più Grande degli Dèi! Il tempio era più ampio di quelli che avevo visto nella terra degli Ayjir. Scavato nel cuore della montagna, come dovevano essere tutte le dimore di Khalk’ru, con gli enormi pilastri squadrati che circondavano l’anfiteatro e salivano fino al soffitto perduto nelle tenebre. Vi erano lanterne di metallo lavorato, dalle quali scaturivano lisce spirali di fievole fiamma gialla. Ardevano costanti e senza far rumore: nella loro luce fioca vedevo i pilastri marciare, interminabili, quasi a perdersi nello stesso vuoto.

Dall’anfiteatro, volti innumerevoli erano levati verso di me… centinaia. Volti di donne sotto gli stendardi e le bandiere ricamate con gli stemmi dei clan, i cui uomini avevano combattuto accanto a me e dietro di me in molte battaglie sanguinose. Per gli Dèi… quant’erano pochi gli uomini, lì! Mi fissavano, quei visi di donna… donne nobili, donne cavalieri, soldatesse… Mi fissavano a centinaia… con gli azzurri occhi spietati… e non vi era né pietà né dolcezza femminile in quelle facce… Erano guerriere… Bene! E allora le avrei trattate non come donne, ma come guerriere.