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Dietro la fortezza, le pareti perpendicolari volgevano verso l’interno: tra loro c’era un varco ampio una terza parte della piattaforma della fortezza. Davanti a noi, dalla nostra parte del fiume ribollente, la scarpata era stata spogliata degli alberi e delle felci. Non offriva la minima copertura.

Avevano scelto bene la loro sede, i fuorilegge di Sirk. Nessun assediante poteva attraversare a nuoto quel fossato con i getti sibilanti di vapore e le bolle che salivano continuamente dai geyser del fondo. Né pietre né alberi potevano formare una strada rialzata da percorrere per aggredire le mura della fortezza. Da questa parte era impossibile prendere Sirk. Questo era evidente. Eppure, Sirk non poteva essere tutta lì.

Lur aveva seguito il mio sguardo, letto i miei pensieri.

«Sirk è al di là di quella gola,» e indicò il varco tra le pareti di roccia. «È una valle in cui si trovano la città, i campi, le mandrie. E non ci sono altre vie d’accesso, oltre quella porta.»

Annuii, distratto. Stavo studiando i precipizi dietro la fortezza. Mi accorsi che, a differenza dei bastioni tra cui stava la piattaforma, non erano lisci. C’erano state frane, e quelle rocce avevano formato rozze terrazze. Se fosse stato possibile arrivare a quelle terrazze… senza essere visti…

«Possiamo avvicinarci di più alla parete da cui nasce il torrente, Lur?»

Lei mi afferrò il polso, gli occhi ardenti.

«Che cosa vedi, Dwayanu?»

«Non lo so ancora, Incantatrice. Forse niente. Possiamo avvicinarci di più al torrente?»

«Vieni.»

Uscimmo dalle felci, le costeggiammo, preceduti dal lupo che camminava a zampe rigide, gli occhi e gli orecchi all’erta. L’aria diventò più calda, satura di vapori, difficile da respirare. Il sibilo si fece più forte. Strisciammo sotto le felci, bagnati fino alla pelle. Un altro passo, ed io abbassai lo sguardo sul ribollire del torrente. Mi accorsi che non scaturiva direttamente dalla parete di roccia: sgorgava dalla sua base, e il calore e le esalazioni mi diedero il capogiro. Mi strappai una striscia di stoffa dalla tunica e me l’avvolsi attorno alla bocca e al naso. Studiai la parete verticale di roccia, metro per metro. La studiai a lungo… e poi mi voltai.

«Possiamo tornare indietro, Lur.»

Lei chiese, ansiosa: «Che cosa hai visto, Dwayanu?»

Ciò che avevo visto poteva essere la fine di Sirk… ma non glielo dissi. Il pensiero non era ancora perfettamente formato. Non avevo mai avuto l’abitudine di confidare ad altri piani incompleti. Era troppo pericoloso. Il bocciolo è più delicato del fiore, e deve essere lasciato libero di svilupparsi, lontano da mani curiose o traditóri o addirittura benintenzionate. Matura il piano e mettilo alla prova; allora potrai valutare ogni cambiamento con sereno giudizio. E non ero mai stato appassionato delle consultazioni: troppi ciottoli gettati nella sorgente l’infangano. Anche per quella ragione io ero… Dwayanu. Dissi a Lur: «Non so. Mi è venuta un’idea. Ma devo valutarla.»

Lei ribatte, incollerita: «Non sono una stupida. Conosco la guerra… come conosco l’amore. Potrei aiutarti.»

Io dissi, impaziente: «Non ancora. Quando avrò fatto il mio piano, te lo rivelerò.»

Lur non parlò più fino a quando arrivammo in vista delle donne che ci attendevano: allora si rivolse a me. La sua voce era bassa, molto dolce.

«Non vuoi dirmelo? Non siamo eguali, Dwayanu?»

«No,» risposi: e lasciai a lei decidere se quella era la risposta alla prima domanda o ad entrambe.

Lur montò sul suo cavallo, e ci avviammo di nuovo attraverso la foresta.

Io pensavo, pensavo a ciò che avevo visto e a ciò che poteva significare: quando udii di nuovo l’ululato dei lupi. Era un ululato continuo, insistente. Un richiamo. L’Incantatrice alzò la testa, ascoltò, poi spronò il cavallo. Lanciai il mio all’inseguimento. Il falcone bianco agitò le ali e s’innalzò nell’aria, stridendo.

Corremmo fuori dalla foresta, su un prato coperto di fiori. In mezzo al prato c’era un omettino. I lupi lo circondavano, intrecciandogli intorno, con i loro passi, un cerchio stregato. Nell’istante in cui scorsero Lur smisero di ululare e si accosciarono. Lur frenò il cavallo, avanzò lentamente verso di loro. Intravvidi la sua faccia: era dura e feroce.

Guardai l’omettino. Era molto piccolo, doveva arrivarmi poco oltre il ginocchio, eppure era modellato in modo perfetto. Un piccolo uomo dorato con i capelli che gli scendevano sin quasi ai piedi. Uno dei Rrrllva… ne avevo studiato le immagini intessute negli arazzi, ma quello era il primo che vedevo in carne ed ossa… O no? Avevo la vaga idea di essere stato, un tempo, in stretto contatto con loro.

Il falcone bianco gli volteggiava intorno alla testa, saettando verso di lui, cercando di colpirlo con gli artigli e con il becco. L’omettino si riparava gli occhi con un braccio, mentre con l’altro cercava di scacciare il rapace. L’Incantatrice lanciò al falcone uno stridulo richiamo, e quello volò da lei. L’ometto abbassò le braccia. I suoi occhi si posarono su di me. Mi gridò qualcosa, tendendomi le braccia, come un bambino.

Nel grido e nel gesto c’era una supplica. E speranza e fiducia. Era come un bimbo spaventato che invocasse qualcuno che conosceva e di cui si fidava. Nei suoi occhi rividi la speranza che avevo visto spegnersi nello sguardo delle vittime del Sacrificio. Bene, non l’avrei visto spegnersi nello sguardo dell’ometto!

Spinsi il mio cavallo oltre quello di Lur, lo feci saltare oltre la barriera dei lupi. Mi sporsi dalla sella, raccolsi l’omettino tra le braccia. Si aggrappò a me, bisbigliando in strani suoni trillanti.

Mi volsi a guardare Lur. Aveva arrestato i cavalli al di là dei lupi.

Lei mi gridò: «Portamelo!»

L’ometto mi strinse forte, proruppe in un torrente rapido di suoni incomprensibili. Evidentemente aveva capito, e altrettanto evidentemente m’implorava di non consegnarlo all’Incantatrice.

Risi e scossi il capo guardando Lur. Vidi i suoi occhi avvampare di una furia rapida e incontrollabile. Si infuriasse pure! L’ometto sarebbe stato salvo! Piantai i calcagni nei fianchi del cavallo, superai con un altro balzo il cerchio dei lupi. Non lontano vidi lo scintillìo del fiume, e diressi il cavallo da quella parte.

L’Incantatrice lanciò un grido frenetico, rabbioso. Poi ci fu un frullo d’ali attorno alla mia testa, lo sbattere delle ali intorno alle mie orecchie. Alzai una mano. La sentii colpire il falcone, udii il rapace strillare di furore e di dolore. L’ometto si strinse più forte a me.

Una forma bianca balzò dal basso e si aggrappò per un momento al pomo della mia sella, fissandomi con gli occhi verdi, la bocca rossa sbavante. Mi diedi un’occhiata alle spalle, svelto. Il branco dei lupi mi stava piombando addosso, seguito da Lur. Il lupo spiccò un altro balzo. Ma questa volta avevo sguainato la spada. L’affondai nella gola della belva candida. Un altro spiccò un balzo, stracciandomi la tunica. Sollevai alto l’omettino con un braccio, e colpii di nuovo.

Il fiume era ormai vicino. Ero sulle sue rive. Sollevai l’omettino con entrambe le mani e lo lanciai lontano, nell’acqua.

Mi girai, con le due spade nelle mani, per fronteggiare la carica dei lupi.

Udii un altro grido di Lur. I lupi si arrestarono di colpo, così che i primi scivolarono e rotolarono. Guardai il fiume. Lontano c’era la testa dell’omettino, con i lunghi capelli che galleggiavano formando una scia: stava nuotando rapido verso la sponda opposta.

Lur mi venne accanto. Il suo viso era bianco, i suoi occhi duri come due gemme azzurre.

Disse con voce soffocata: «Perché l’hai salvato?»

Riflettei, gravemente. Risposi: «Perché non volevo vedere per due volte la speranza spegnersi negli occhi di qualcuno che ha fiducia in me.»