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«Jim… quanto tempo è passato tra il salvataggio di Sri e il falso messaggio?»

«Due giorni… Che importa? Avevo detto a Evalie che cosa… avevi… Gliel’ho detto molte volte. Lei non ha capito… ma mi ha creduto sulla parola… Dammi ancora un po’ di quella roba, Leif… Sto andando…»

La pozione fiammeggiante lo rianimò di nuovo.

«Siamo arrivati a Sirk… due giorni fa… attraverso il fiume con Sri e venti pigmei… è stato facile… troppo facile… Neppure un lupo ha ululato, benché sapessi che quelle belve ci spiavano… ci seguivano… e anche gli altri. Abbiamo aspettato… poi c’è stato l’attacco… e allora ho capito che eravamo presi in trappola… Come hai superato quei geyser… vecchio mio… Lascia perdere… ma… Evalie crede che sia stato tu a mandare il messaggio… tu… un tradimento…»

Chiuse gli occhi. Le sue mani erano fredde, fredde.

«Tsantawu… fratello… tu non lo credi! Tsantawu… ti prego… parlami…»

Riaprì gli occhi: ma udivo appena la sua voce.

«Non sei Dwayanu… Leif? Né adesso… né mai più?»

«No, Tsantawu… non lasciarmi!»

«Piega… la testa… più vicino, Leif… continua a lottare… salva Evalie.»

La voce divenne più fievole.

«Addio… Degataga… non è colpa tua…»

Un’ombra del vecchio sorriso sardonico passò sul volto pallidissimo.

«Non li hai scelti tu i tuoi… maledetti… antenati!… È sfortuna… Ce la siamo… spassata… insieme… Salva… Evalie…»

Un fiotto di sangue gli sgorgò dalla bocca.

Jim era morto… era morto!

Tsantawu… non era più!

IL LIBRO DI LEIF

XXI

RITORNO A KARAK

Ridistesi Jim e gli posai un bacio sulla fronte. Mi alzai. Ero stordito dall’angoscia. Ma sotto lo stordimento ribolliva una rabbia straziata, un orrore torturante. Una rabbia mortale contro l’Incantatrice e il Fabbro… orrore per me stesso, per ciò che ero stato… orrore di… Dwayanu!

Dovevo trovare Tibur e l’Incantatrice… ma prima c’era un’altra cosa da fare. Quei due ed Evalie potevano aspettare.

«Dara… Ordina di sollevarlo. Portatelo in una delle case.»

Le seguii a piedi, mentre portavano via Jim. I combattimenti continuavano ancora, ma lontano da noi. Lì c’erano soltanto i morti. Immaginai che Sirk stesse tentando l’ultima resistenza in fondo alla valle.

Dara, Naral ed io, ed una mezza dozzina di soldatesse varcammo la porta sfondata di quella che fino al giorno precedente era stata una casa graziosa. Al centro c’era una sala a colonne. Le altre soldatesse si raggrupparono intorno alle porte sfasciate, guardandone l’entrata. Ordinai di portare nella sala sedie e letti e tutto ciò che si poteva bruciare, di preparare un rogo.

Dara disse: «Signore, permettimi di lavarti la ferita.»

Sedetti su uno sgabello e pensai, mentre lei mi lavava lo squarcio alla testa con vino bruciante. Oltre allo strano stordimento, la mia mente era limpidissima. Ero Leif Langdon. Dwayanu non era padrone del mio cervello… e non lo sarebbe stato mai più. Eppure viveva. Viveva come parte di me stesso. Era come se il trauma di riconoscere Jim avesse dissolto Dwayanu in Leif Langdon. Come se due correnti contrastanti si fossero confuse in una; come se due gocce si fossero unite; come se due metalli antagonistici si fossero fusi insieme.

Era limpido come il cristallo ogni ricordo di tutto ciò che avevo udito e visto, detto e fatto e pensato dal momento in cui ero stato scaraventato dal ponte Nansur. E limpido, atrocemente limpido, era tutto quello che era accaduto prima. Dwayanu non era morto, no! Ma era solo una parte di me, ed io ero più forte. Potevo servirmi di lui, della sua forza, della sua saggezza… ma lui non poteva servirsi di me. Adesso comandavo io. Io ero il padrone.

E pensai che se volevo salvare Evalie… se volevo fare ciò che adesso sapevo di dover fare, a costo della vita, dovevo continuare ad essere, esteriormente, solo Dwayanu. Quello era il mio potere. Non sarebbe stato facile spiegare alle mie soldatesse una trasformazione come quella che avevo subito. Credevano in me e mi seguivano perché ero Dwayanu. Se Evalie, che mi aveva conosciuto come Leif, che mi aveva amato come Leif, che aveva ascoltato Jim, non aveva capito… come potevano capire costoro? No, non dovevano vedere nessun cambiamento.

Mi tastai la testa. Il taglio era lungo e profondo: a quanto pareva, il mio cranio non si era spaccato soltanto perché era troppo solido.

«Dara… hai visto chi mi ha ferito?»

«È stato Tibur, Signore.»

«Ha tentato di uccidermi… Perché non mi ha finito?»

«La sinistra di Tibur non ha mai fallito nel dare la morte. Lui crede che non possa fallire. Ti ha visto cadere… ti ha creduto morto.»

«E la morte mi ha mancato di un capello. Non mi avrebbe mancato, se qualcuno non mi avesse scaraventato da una parte. Sei stata tu, Dara?»

«Sono stata io, Dwayanu. L’ho visto insinuare la mano nella cintura, ho capito cosa stava per fare. Ti ho abbrancato alle ginocchia… in modo che lui non mi vedesse.»

«Perché? Hai paura di Tibur?»

«No. Perché volevo lasciargli credere che non aveva sbagliato il colpo.»

«E perché?»

«In modo che tu avessi un’occasione migliore per ucciderlo, Signore. La tua forza stava dileguando insieme alla vita del tuo amico.»

Guardai attento la mia capitana dagli occhi arditi. Che cosa sapeva? Bene, avrei avuto tempo per scoprirlo. Guardai la pira funebre. Era quasi completa.

«Che cosa ha lanciato, Dara?»

Lei si sfilò dalla cintura un’arma bizzarra, quale non avevo mai visto. L’estremità era appuntita come un pugnale, con quattro costolature affilate come rasoi ai lati. Aveva un manico metallico, lungo venti centimetri, rotondo, simile all’asta di un giavellotto in miniatura. Pesava circa due chili. Era fatta di un metallo che non riconobbi: più completo e più duro del migliore acciaio temperato. In pratica, era un coltello da lancio. Ma nessuna maglia metallica poteva respingere quella punta adamantina, scagliata da un uomo forte come il Fabbro. Dara me la tolse di mano e tirò il corto manico. Immediatamente, le costole scattarono aprendosi come flange. All’estremità erano foggiate come uncini rovesciati. Era un’arma diabolica, se mai ne avevo vista una. Una volta piantata, non c’era modo di svellerla se non tagliando; tirando il manico si facevano scattare le flange che si agganciavano nella carne. La ripresi dalle mani di Dara e me l’infilai nella cintura. Se avevo avuto qualche dubbio su ciò che avrei fatto a Tibur… ora non ne avevo più.

La pira era stata ultimata. Andai a prendere Jim, e ve lo deposi. Lo baciai sugli occhi e gli misi una spada nella mano. Spogliai la sala delle ricche tappezzerie, e lo drappeggiai con quelle. Con una selce, appiccai il fuoco alla pira. Il legno era asciutto e resinoso, e bruciò rapidamente. Guardai le fiamme salire fino a quando il fumo e il fuoco formarono un baldacchino attorno a Jim.

Poi, ad occhi asciutti ma con la morte nel cuore, uscii da quella casa, tra le mie soldatesse.

Sirk era caduta, ed il saccheggio era in corso. Dovunque, dalle case devastate, si levava il fumo. Un distaccamento di soldatesse ci incrociò, trascinando una dozzina di prigionieri: erano tutte donne e bambini, e alcuni erano feriti. Poi vidi che tra quelli che avevo scambiato per bambini c’era un gruppetto di pigmei dorati. Quando mi videro le soldatesse si fermarono, s’irrigidirono e mi guardarono incredule.

Poi una gridò.

«Dwayanu! Dwayanu è vivo!» Alzarono le spade in atto di saluto, lanciando un grido: «Dwayanu!»

Feci un cenno alla capitana.

«Allora credevate che Dwayanu fosse morto?»

«Così ci hanno detto, Signore.»