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«Pronte, Signore!»

Spalancai la porta. Spronai il cavallo verso Tibur, tenendomi chino, con il mio piccolo esercito che mi seguiva. Deviai verso di lui rialzando la testa, accostai la faccia alla sua.

Tibur s’irrigidì: mi guardò negli occhi e spalancò la bocca. Capii che quanti lo seguivano erano rimasti inchiodati dallo stesso sbalordimento incredulo. Prima che il Fabbro potesse riprendersi dalla paralisi, gli avevo strappato Evalie dalla sella e l’avevo passata a Dara.

Levai la spada per squarciare la gola di Tibur. Non gli diedi un preavviso. Non c’era tempo per le regole cavalieresche. Per due volte aveva cercato di uccidermi a tradimento. Lo avrei finito in fretta.

Sebbene il mio colpo fosse stato rapido, il Fabbro lo fu ancora di più. Si ributtò all’indietro, scivolò dal cavallo e atterrò sui tacchi, come un gatto. Balzai dal mio stallone prima che avesse alzato a mezzo il suo grosso martello per scagliarlo. Avventai la lama per trapassargli la gola. La parò con il martello. Poi fu preso da una furia folle. Il martello cadde con uno schianto sulla roccia. Si avventò su di me, ululando. Mi avvinghiò con le braccia, imprigionando le mie contro i fianchi, in una stretta di acciaio vivo. Con le gambe cercò di rovesciarmi. Le sue labbra erano ritratte, come quelle di un lupo idrofobo; mi piantò la testa alla base del collo, cercando di lacerarmi la gola con i denti.

Le costole mi scricchiolarono sotto la morsa delle braccia di Tibur. I polmoni mi scoppiavano, la vista si affievoliva. Mi contorsi e mi dibattei per sfuggire a quelle fauci rosse, a quelle zanne affannose.

Udii grida, attorno a me, udii e intravvidi il mulinare dei cavalli. Le dita convulse della mia mano sinistra toccarono la mia cintura… si chiusero su qualcosa… qualcosa che sembrava l’impugnatura di un giavellotto…

Il dardo diabolico di Tibur!

Mi afflosciai, inerte, all’improvviso, nella stretta del Fabbro. Tuonò la sua risata, rauca di trionfo. E per una frazione di secondo, la sua presa si allentò.

Quell’attimo fu sufficiente. Chiamai a raccolta tutte le mie forze e mi liberai dalla morsa. Prima che potesse abbrancarmi ancora, la mia mano era affondata nella cintura e ne aveva estratto il dardo.

L’alzai di scatto e lo piantai nella gola di Tibur, sotto k mascella. Tirai il manico. Le flange affilate come rasoi si aprirono, recidendo arterie e muscoli. La risata belluina di Tibur si cambiò in un orrendo gorgoglìo. Le sue mani cercarono l’impugnatura, la tirarono… la strapparono via…

E il sangue zampillò dalla gola squarciata di Tibur; le ginocchia gli si piegarono; barcollò e cadde ai miei piedi, soffocando… e le sue mani, debolmente, cercavano ancora di abbrancarmi…

Rimasi immobile, stordito, ansando per ritrovare il respiro, con il sangue che mi rombava nelle orecchie.

«Bevi questo, Signore!»

Alzai gli occhi verso Dara. Mi stava porgendo una borraccia di vino. La presi tra le mani tremanti e bevvi a lungo. Il buon vino mi sferzò. Mi staccai di colpo la borraccia dalle labbra.

«La ragazza bruna dei Rrrllya… Evalie. Non è con te?»

«Eccola là. L’ho messa su un altro cavallo. C’è stato da combattere, Signore.»

Guardai in faccia Evalie. Lei ricambiò il mio sguardo con gli occhi castani freddi, implacabili.

«È meglio che usi il resto del vino per lavarti il viso, Signore. Non sei uno spettacolo adatto ad una tenera fanciulla.»

Mi passai la mano sulla faccia e la ritirai bagnata di sangue.

«È sangue di Tibur, Dwayanu, grazie agli Dèi!»

Dara mi portò il mio cavallo. Mi sentii meglio quando fui di nuovo in sella. Gettai un’occhiata a Tibur. Le sue dita si agitavano ancora, debolmente. Mi guardai intorno. Accanto al ponte c’era una compagnia sbandata di arciere di Karak. Alzarono gli archi in atto di saluto.

«Dwayanu! Viva Dwayanu!»

Il mio drappello mi parve stranamente ridotto. Chiamai… «Naral!»

«È morta, Dwayanu. Ti ho detto che si è combattuto.»

«Chi l’ha uccisa?»

«Non importa. Quello l’ho fatto fuori io. E i superstiti della scorta di Tibur sono fuggiti. E adesso, Signore?»

«Attendiamo Lur.»

«Non dovremo attendere molto. Sta arrivando.»

Squillò un corno. Mi voltai e vidi l’Incantatrice che attraversava al galoppo lo spiazzo. Le trecce rosse erano sciolte, la spada arrossata: era sporca per la battaglia quasi quanto me. Con lei galoppavano una dozzina scarsa delle sue donne, e una mezza dozzina dei suoi nobili.

L’aspettai. Lur frenò il cavallo davanti a me, scrutandomi con occhi accesi, frenetici.

Avrei dovuto ucciderla come avevo ucciso Tibur. Avrei dovuto odiarla. Ma mi accorsi che non l’odiavo. Tutto l’odio che prima c’era in me sembrava essersi riversato su Tibur. No, non l’odiavo.

Lei sorrise lievemente.

«È difficile ucciderti, Capelli Gialli!»

«Dwayanu… Incantatrice.»

Mi lanciò un’occhiata quasi sprezzante.

«Tu non sei più Dwayanu!»

«Prova a convincere i soldati, Lur.»

«Oh, lo so,» disse lei, e abbassò gli occhi su Tibur. «Così hai ucciso il Fabbro. Bene, almeno sei ancora un uomo.»

«L’ho ucciso per te, Lur!» l’irrisi. «Non te lo avevo promesso?»

Non mi rispose: chiese soltanto, come prima aveva fatto Dara: «E adesso?»

«Attendiamo qui, fino a che Sirk sarà vuota Poi andremo a Karak, e tu cavalcherai al mio fianco. Non mi piace averti alle spalle, Incantatrice.»

Lei parlò sottovoce alle sue donne, poi restò a testa china, riflettendo, senza rivolgermi più la parola.

Bisbigliai a Dara: «Possiamo fidarci delle arciere?»

Lei annuì.

«Ordina loro di attendere e di marciare con noi. E di’ che trascinino il corpo di Tibur in qualche angolo.»

Per mezz’ora passarono i soldati, con i prigionieri e i cavalli, il bestiame e il resto del bottino. Arrivarono al galoppo piccoli drappelli di nobili con i loro seguaci, e si fermarono per parlare: ma alla mia parola e al cenno di Lur, varcarono il ponte. Quasi tutti i nobili parevano sbigottiti e scontenti della mia resurrezione: i soldati mi salutavano gaiamente.

Poi anche l’ultima compagnia a ranghi ridotti uscì dal varco. Io mi aspettavo di vedere Sri, ma non era con quelli: ne dedussi che era stato portato a Karak insieme ai primi prigionieri, o forse era stato ucciso.

«Vieni,» dissi all’Incantatrice. «Di’ alle tue donne di precederci.»

Mi avvicinai ad Evalie, l’issai dalla sella e me la misi in arcione. Non oppose resistenza, ma la sentii ritrarsi da me. Sapevo che era convinta di essere passata da Tibur ad un altro padrone, di essere per me soltanto una preda di guerra. Se non avessi avuto la mente così stanca, penso che ne avrei sofferto. Ma ero troppo sfinito per curarmene.

Varcammo il ponte, tra le nebbie del vapore. Eravamo quasi arrivati alla foresta quando l’Incantatrice rovesciò all’indietro la testa e lanciò un richiamo lungo, ululante. I lupi bianchi irruppero dalle felci. Ordinai alle arciere d’incoccare le frecce. Lur scosse il capo.

«Non devi far loro del male. Vanno a Sirk. Si sono meritati la paga.»

I lupi bianchi corsero attraverso lo spiazzo spoglio verso l’estremità del ponte, l’imboccarono, svanirono. Li udii ululare tra i morti.

«Anch’io mantengo le mie promesse,» disse l’Incantatrice.

Proseguimmo, addentrandoci nella foresta, per tornare a Karak.

XXII

LA PORTA DI KHALK’RU

Eravamo vicini a Karak quando i tamburi del Piccolo Popolo cominciarono a rullare.

Una stanchezza plumbea s’impadroniva di me, sempre più forte. Faticavo a restare sveglio. Il colpo che avevo ricevuto in testa da Tibur era una delle cause: ma avevo preso altri colpi e non avevo mangiato nulla da prima dell’alba. Non riuscivo a pensare, e meno ancora a progettare ciò che avrei fatto dopo essere rientrato a Karak.