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Ma io ero già abbastanza triste per conto mio, perché non riuscivo a credere che quei sogni potessero avverarsi.

3

Ma le cose cominciarono ad apparirmi in una luce migliore non appena arrivai all’ambasciata. Per prima cosa incontrai Hay Lopez che usciva dal gabinetto degli uomini… cioè quasi sicuramente dal nascondiglio di Mitzi. Non disse niente: si limitò a grugnire passandomi accanto. L’espressione cupa e irritata sulla sua faccia era proprio quello che avevo sperato di vedere.

E quando, facendo scorrere l’acqua del water, aprii la porta segreta ed entrai nella Sala di Guerra, l’espressione sulla faccia di Mitzi era altrettanto promettente. Batteva rabbiosamente sui tasti dell’archivio, nervosa e irritata. Qualunque cosa fosse successa in quelle due notti in cui ero stato via, non era stato un idillio. — Gli ho rifilato Hamid — le dissi soddisfatto, e mi chinai a baciarla. Nessun problema! Neppure entusiasmo, ma rispose al mio bacio, tiepidamente.

— Ne ero certa, Tenny — disse lei con un sospirò, e le linee corrucciate cominciarono a distendersi; non erano indirizzate a me. — Quando potrà venire a rapporto?

— Be’, non gli ho parlato di persona, naturalmente. Sarà fuori fra dieci giorni, sulla parola. Direi due settimane al massimo.

Mitzi parve alquanto soddisfatta. Scrisse un appunto, poi spinse indietro la sedia, fissando il vuoto. — Due settimane — disse pensierosamente. — Peccato che non l’abbiamo avuto qui il giorno del Lutto Nazionale. Avrebbe potuto sentire un sacco di cose in mezzo alla folla. Comunque ci sono altre occasioni in arrivo. Il mese prossimo avranno un’altra delle loro elezioni, ci saranno riunioni politiche di ogni genere…

Le appoggiai le dita sulle labbra. — Quello che è in arrivo — dissi, — domani sera, è la mia festa di addio. Posso invitarti?

Mi rivolse un vero sorriso. — Alla tua festa? Naturalmente.

— E perché non ti prendi una giornata di libertà, domani, per fare qualcosa insieme?

Di nuovo l’ombra del corruccio sulla fronte. — Be’, ho un sacco di cose da fare, Tenn…

Colsi l’occasione al volo. — Ma non con Hay Lopez, giusto?

I solchi fra gli occhi si approfondirono, furiosamente. — Neanche morta! — sibilò. — Nessuno può trattarmi in quella maniera… credere che io sia di sua proprietà!

Mantenni un’espressione blanda e comprensiva, ma dentro di me sorridevo da un orecchio all’altro. — Che facciamo domani, allora?

— E va bene, perché no? Magari potremmo… non so… andare sulle Colline Russe. Qualcosa faremo. — Mi sfiorò la guancia con un bacio. — Se domani voglio prendermi una giornata libera, dovrò lavorare sodo oggi, Tenny… perciò sparisci, d’accordo? — Ma lo disse con affetto.

Con mia grande sorpresa, aveva parlato sul serio a proposito della gita alla vecchia sonda russa. L’accontentai. Immagino che mi sarebbe mancato qualcosa, in un certo senso, se me ne fossi andato da Venere senza vedere uno dei suoi monumenti più famosi. Uscimmo dall’ambasciata resto, e prendemmo un taxi elettrico fino alla stazione dei tram, prima che le strade si riempissero di traffico.

Attorno alle loro città più grandi i Venusiani sono riusciti a far crescere erba, cespugli, perfino alcune cose striminzite che loro chiamano alberi. Naturalmente sono state manipolate geneticamente, ma ogni tanto mostrano un po’ di verde. Le Colline Russe invece non sono state cambiate per niente. Di proposito.

Volete avere un’idea di quanto sono matti i Venusiani? Vi racconto un piccolo aneddoto. Bene, hanno un intero pianeta, cinque volte la superficie delle terre emerse della Terra, perché non ci sono oceani. Per poterlo trasformare in un posto decente e farci crescere qualcosa di verde si sono spaccati a schiena per quarant’anni e più. È una cosa maledettamente difficile, perché Venere è quello che è. Le piante se la vedono brutta. Per prima cosa, non c’è abbastanza luce; secondo, non esiste quasi acqua; terzo, fa troppo caldo. Così perché qualcosa cresca ci vogliono un sacco di trucchi tecnologici e un enorme sforzo. Per prima cosa bisogna piazzare diverse cariche atomiche in qualche faglia tettonica per aprire uno sfogo ai vulcani: questo serve a portare in superficie i vapori d’acqua contenuti nel nucleo del pianeta (è così che la Terra ha avuto la sua acqua, miliardi di anni fa, dicono). Secondo, bisogna incappucciare i vulcani per catturare il vapore. Terzo, bisogna trovare qualcosa di abbastanza freddo per condensare il vapore; questa cosa è l’estremità fredda dei tubi di Hilsch: se ne vedono sulle cime delle montagne, dappertutto su Venere; sono specie di pifferi con un solo buco: l’estremità calda espelle gas attraverso l’atmosfera, disperdendoli nello spazio, quella fredda serve a raffreddare le città, generando nel processo un po’ di elettricità. Quarto, devono far arrivare quel poco d’acqua nelle zone di cultura, e devono farlo sotto terra, per evitare che evapori di nuovo dopo aver percorso i primi tre metri. Quinto, sono necessarie piante geneticamente adattate, che possano assorbire quell’acqua negli steli e nelle foglie prima che evapori. È un miracolo che ci riescano, considerato specialmente che non hanno molta forza lavoro da sprecare per grossi progetti. Ci sono solo ottocentomila Venusiani circa, in tutto.

Eppure, e questa è la cosa assurda, se prendete il tram fino alle Colline Russe, la prima cosa che vedrete nel parco sarà una squadra di sei uomini che lavora ventiquattr’ore su ventiquattro, arrampicata su quelle rocce aguzze, con bidoni da cinquanta chili di diserbante sulla schiena, intenti a estirpare ogni cosa verde!

Matti? Certo che sono matti. È la pazzia conservazionista portata alle estreme conseguenze: vogliono mantenere la zona intorno a Venera nelle esatte condizioni in cui era quando la sonda è atterrata. Ma in effetti non c’è da sorprendersi. — Se i Venusiani non fossero matti, se ne sarebbero restati sulla Terra fin dall’inizio — dissi a Mitzi mentre viaggiavamo sul tram sferragliante. — Guarda in che razza di porcili vivono! — Stavamo attraversando i sobborghi della città. Era una zona residenziale di alta classe, eppure si vedevano dappertutto erbacce e case di plastica pressata; non avevano nemmeno l’Astro-Erba!

Mi venne in mente che forse parlavo a voce un po’ alta. Gli altri passeggeri, tutti Venusiani, si erano voltati a guardarmi. Non c’era da stare molto allegri. I Venusiani sono quasi tutti grandi e grossi, più alti ancora di Mitzi, di solito, e sembrano orgogliosi della loro pelle bianca come la pancia di un pesce. Naturalmente non prendono mai il sole. Però potrebbero usare lampade ultraviolette, come facciamo tutti noi, compresa Mitzi, che non ne avrebbe bisogno con la pelle che ha.

— Sta’ attento a quello che dici — mormorò Mitzi nervosamente. La famiglia seduta di fronte a noi, padre, madre e quattro (sì, ho detto quattro!) bambini, si voltò a guardarci, con espressione poco amichevole. Noi non siamo molto simpatici ai Venusiani. Ci credono degli imbroglioni, venuti a derubarli. C’è da ridere, perché non hanno niente che valga la pena di rubare. Se ci interessiamo dei loro affari, è per il loro bene. Solo che loro non sono abbastanza intelligenti per capirlo.

Per fortuna eravamo entrati nel tunnel che attraversa l’anello di montagne attorno alle Colline Russe. Tutti si prepararono a scendere. Mentre stavo per alzarmi, Mitzi mi diede una gomitata, e vidi un Venusiano grande e grosso, con gli occhi verdi, i capelli rossi e quell’orribile pelle biancastra, che mi guardava storto. Seguendo il muto consiglio di Mitzi, rivolsi al Venusiano un gran sorriso che voleva dire: scusatemi tanto per la mancanza di tatto, e scesi dopo di lui. Mentre compravo una guida, Mitzi ferma vicino a me guardò allontanarsi l’uomo con la testa-semaforo. — Guarda qui — dissi aprendo la guida, ma Mitzi non mi stava ascoltando.