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— Che mi venga un accidente, guarda qui! — gridai, e le feci vedere il manometro dell’ossigeno. La lancetta era sul giallo, e sfiorava il settore rosso. Ne avevo fatto uscire un po’ più di quanto volessi. — Quei dannati Venusiani mi hanno venduto un serbatoio mezzo vuoto! Be’ — dissi con aria molto rassegnata, — mi dispiace, ma dovrò tornare alla stazione. E poi è quasi ora di rientrare all’ambasciata.

Mitzi mi diede un’occhiata strana. Non disse niente; si voltò e si avviò lungo la salita che portava alla stazione. Di sicuro aveva controllato il manometro nel comprare le bombole, ma probabilmente non poteva essere sicura di averlo fatto. Per distrarla, sulla via del ritorno, mi levai il tubo dalla bocca e dissi: — Cosa ne dici di bere qualcosa prima di prendere il tram? — È vero che non posso sopportare il cibo venusiano: è colpa dell’anidride carbonica nell’aria, che fa crescere le cose troppo in fretta, e poi i Venusiani mangiano tutto fresco, e uno non ha mai il piacere di sentire. quell’aroma della refrigerazione istantanea. Ma un liquore è un liquore, in qualsiasi parte del sistema solare. E dopo diciotto mesi che uscivo con Mitzi, avevo capito che lei diventava sempre più allegra dopo un paio di bicchierini. Si illuminò subito, e dopo aver riconsegnato le bombole (la convinsi a non protestare per la faccenda dell’ossigeno) ci dirigemmo subito verso le scale.

La stazione dei tram era una tipica costruzione venusiana: sulla Terra non sarebbe mai stata accettata come stazione di terza classe. Niente distributori automatici, giochi, mostre educative di nuovi prodotti e servizi. Era stata scavata nella roccia, e l’unica cosa che avevano fatto per abbellirla un po’, era stato di pitturare le pareti e metterci qualche pianta ornamentale. Da una parte c’era il tunnel della linea tramviaria. Avevano scavato un po’ di spazio per il marciapiede, la sala di attesa e cose del genere. Non avevano voluto rovinare la Bellezza (con la B maiuscola) Naturale (con la N maiuscola) del arco, e perciò avevano nascosto la stazione nelle colline.

La cosa peggiore, pensai all’inizio, era il rumore. Quando arrivava una vettura, in quello spazio dalle pareti riverberanti, sembrava giorno di demolizione in un impianto per il recupero di rottami metallici. Quasi mi passò la voglia di bere, ma non volevo deludere Mitzi. Ma quando ci fummo seduti a un tavolo, scoprii qualcosa ancora peggio del rumore. — Guarda qui — dissi girando il menu per farlo leggere anche a lei. Era un altro esempio della disgustosa «onestà» venusiana:

Tutti i cocktail sono preconfezionati in lattina, e si sente. Il vino rosso sa di tappo, e non è di una buona annata.

Il bianco è un po’ più decente. Se volete mangiare, è meglio scendere al piano di sotto e portarvelo su da soli. Altrimenti pagate $ 2 per il servizio.

Mitzi alzò le spalle. — È il loro pianeta — disse, decisa a divertirsi, e allungò il collo per sbirciare fuori dalla finestra. È questa era un’altra delle loro trovate. Per non rovinare il paesaggio, avevano nascosto le finestre in fenditure della roccia. Dal di fuori forse era una buona idea; ma dall’interno uno non riusciva a vedere niente senza torcere il collo, e a cosa serve una finestra panoramica se non si vede niente?

Sopporta e sorridi! Stavo per andarmene da quel buco, finalmente. Ordinammo il vino bianco, e Mitzi osservò: — Guarda, c’è un elicottero ambulanza vicino al sentiero. Forse qualcuno si è ferito.

— Probabilmente lo tengono lì per quelli che restano senza ossigeno — scherzai, sporgendomi a guardare. L’elicottero era lì da un po’, perché i rotori erano fermi. Due uomini stavano discutendo vicino ad esso. Rimasi un po’ sorpreso nel vedere che uno di questi era l’uomo con i capelli rossi che avevo incontrato sul tram. Ma non tanto, perché non ce ne sono poi molti di Venusiani, e non si può fare a meno di incontrare la stessa persona più volte. Ma quello lì cominciava a darmi sui nervi. — Beviamo — dissi, senza pensarci più, e pagando la cameriera. — Un brindisi! Ai bei giorni passati insieme: passati, presenti e futuri!

— Ah, Tenn — disse Mitzi sollevando il bicchiere. — Lo vorrei tanto. Ma io resto ancora.

Il vino era buono e fresco… cioè no, non era poi così buono, ma almeno era fresco. Pensare a Mitzi che sprecava se stessa per un altro anno e mezzo, come minimo, in quel buco puzzolente di pianeta, me lo faceva andare per traverso. — Dicono che se uno passa troppo tempo con i Venusiani, diventa un Venusiano anche lui. — Non dicevo seriamente… Non del tutto, almeno. E immediatamente lei prese la sua espressione difensiva.

— La mia Agenzia non ha alcuna ragione per essere insoddisfatta del mio lavoro — disse bruscamente. — I Venusiani non sono cattivi! Solo mal consigliati.

— Mal consigliati. — Mi guardai attorno. I tavoli erano di nuda plastica. Non c’era musica di sottofondo, nessun poster pubblicitario a rallegrare le pareti.

— Hanno solo un diverso stile di vita — insistette lei. — Naturalmente a paragone di quello che abbiamo sulla Terra fa pena. Ma l’unica cosa che vogliono, in realtà, è che li lasciamo m pace.

La conversazione aveva preso una piega che non mi piaceva. Qualche volta, parlando con Mitzi quando non era sul lavoro, mi chiedevo se il vecchio detto non fosse vero, nel suo caso. Era su Venere da diciotto mesi. Aveva visitato tutto il pianeta, o quasi, e aveva avuto a che fare con i suoi cittadini peggiori: i rinnegati. Se c’era qualcuno all’ambasciata che avrebbe dovuto essere disgustato da quel posto primitivo, era Mitzi Ku. E invece no. Intendeva chiedere di restare per altri diciotto mesi nel forno. Qualche volta si comportava perfino come se le piacesse! Si raccontava addirittura che andasse a far compere nei negozi venusiani, invece che allo spaccio dell’ambasciata. Io non ci credevo, naturalmente. Però certe volte mi venivano dei dubbi… Comunque quello che diceva era vero: la sua Agenzia, che poi era anche la mia, non poteva trovare niente da dire sul suo lavoro. Il suo incarico ufficiale all’ambasciata era quello di «addetta ai visti», ma il suo vero lavoro era quello di dirigere una rete di spie e sabotatori che andava da Port Kathy alla Colonia Penale Polare. Lo faceva in maniera superba. L’analisi computerizzata diceva che il Prodotto Planetario Lordo venusiano era sceso di un buon tre per cento solo grazie al lavoro di Mitzi.

Eppure diceva cose così strane! Come: — Oh, Tenn, dai loro un po’ di fiducia. Hanno avuto un pianeta in cui non riuscirebbe a sopravvivere neanche un serpente a sonagli dell’Arizona, e in meno di trent’anni l’hanno reso abitabile…

— Abitabile! — sogghignai, gettando un’occhiata verso la finestra.

— Sicuro che è abitabile! Almeno dove l’anno coperto. Naturalmente non è un paradiso dei Mari del Sud, ma hanno fatto un buon lavoro, considerando quello che avevano fra le mani. — Guardò irritata verso una famiglia venusiana che stava cercando di calmare un bambino che piangeva. Poi alzò le spalle. — Oh, sono fastidiosi — ammise. — Ma non sono cattivi. Pensa da dove sono partiti. La metà è venuta qui perché sulla Terra erano dei disadattati, e l’altra metà vi è stata esiliata perché erano criminali.

— Disadattati e criminali, proprio così! La feccia della società! E non è che siano migliorati molto.

Ma non aveva senso passare l’ultimo giorno insieme discutendo di politica. Inghiottii e cambiai argomento. — Alcuni non sono così male — concessi. — Specialmente i bambini. — Qui andavo sul sicuro. Nessuno dice mai male dei bambini, e la piccola peste non aveva ancora smesso di piangere. — Vorrei consolarlo — provai a dire, — ma credo che lo potrei soltanto spaventare… uno sconosciuto che arriva all’improvviso…