Con cautela aprì la porta del magazzino e guardò fuori. Anche se indossava una divisa in tutto simile a quella delle guardie, non poteva sperare di passare inosservato in mezzo a uomini che si conoscevano bene fra di loro. Doveva rimanere nascosto. Ma aveva bisogno di aria.
Il corridoio era deserto. Passò davanti alla porta degli alloggi delle guardie, e udì il mormorio della conversazione che si svolgeva all’interno. Sullo stipite di quella porta la luce verde continuava a brillare. Barrent proseguì lungo il corridoio, e cominciò ad avvertire i primi sintomi di asfissia. L’apparecchio che stringeva ancora nella mano indicava che l’ossigeno mancava quasi completamente nel corridoio.
Su Omega, il Gruppo Due aveva calcolato che il sistema d’aerazione avrebbe funzionato in tutto lo scafo. Ora Barrent poteva constatare che non era vero. Con poche persone a bordo non era necessario rifornire d’aria tutto lo scafo, bastava rifornire i locali dove si trovavano le guardie e gli uomini dell’equipaggio.
Barrent affrettò il passo, ansimando alla ricerca di un po’ d’aria. La situazione peggiorava rapidamente.
Passò di fronte a diverse porte aperte, ma la luce verde sullo stipite era spenta. La testa gli doleva in maniera terribile e le gambe sembravano diventate di gelatina. Cercò di studiare un piano d’azione. Gli sembrò che il reparto-piloti offrisse maggiori possibilità. Forse gli uomini d’equipaggio non erano armati. E anche se lo fossero stati, dovevano essere meno pronti di riflessi delle guardie. Forse poteva far prigioniero qualche ufficiale, forse poteva impadronirsi dell’astronave…
Valeva la pena di tentare. Doveva tentare.
In fondo al corridoio incominciava la scala. Superò una dozzina di livelli, tutti deserti, e alla fine si trovò di fronte a un cartello con la scritta: “Sezione Cornando”.
Trasse di tasca la pistola di plastica e prese ad avanzare nel corridoio. Cominciava a perdere la lucidità. Ombre nere gli si formavano davanti agli occhi, e il corridoio sembrava rovesciarglisi addosso. Si trovò a camminare carponi verso una porta su cui era scritto: “Cabina Comando — Ingresso vietato a tutti eccetto gli Ufficiali di bordo”.
Il corridoio sembrava immerso in una nebbia grigia. Barrent raccolse tutte le forze che gli restavano e si sollevò per afferrare la maniglia. La porta cominciò ad aprirsi. Strinse il calcio della pistola e si preparò all’azione.
Ma come la porta si aprì una nebbia nera lo avvolse inesorabilmente. Pensò di vedere delle facce atterrite e di udire delle voci che gridavano: “Attenti! È armato!”. Poi l’oscurità si richiuse su di lui, e Barrent cadde in avanti.
XXII
Il ritorno alla coscienza avvenne di colpo. Barrent si sollevò, e si rese conto immediatamente di trovarsi nella cabina di comando. La porta metallica alle sue spalle era chiusa, e adesso lui poteva respirare senza difficoltà. Il locale era deserto. Forse, pensando che sarebbe rimasto svenuto a lungo, erano andati a chiamare le guardie.
Si alzò, e istintivamente raccolse la pistola. Dopo averla osservata attentamente corrugò la fronte e la ripose in tasca.
Perché, si chiese, lo avevano lasciato nella cabina comando, la parte più importante dell’astronave? E perché gli avevano lasciato la pistola?
Cercò di ricordare le facce intraviste prima di svenire. Erano figure indistinte, vaghe e sfuocate, con voci cavernose, da sogno. C’erano state veramente delle persone in quella stanza?
Più ci pensava, più si convinceva che quelle figure gli erano nate nella coscienza nel momento in cui stava per svenire. In quella stanza non c’era mai stato nessuno. Lui era solo, nel centro vitale dello scafo.
Si avvicinò al grande pannello dei comandi. Era diviso in dieci sezioni, ciascuna zeppa di quadranti con gli indici su cifre di incomprensibile lettura, e di interruttori, pulsanti, reostati e leve.
Barrent esaminò lentamente le dieci sezioni. L’ultima sembrava essere il controllo generale delle altre nove. Sotto uno dei quadranti c’era scritto: “Coordinazione, Manuale/Automatica”. La parte automatica era illuminata. E c’erano quadranti simili per la navigazione, per il controllo delle collisioni, per l’entrata e l’uscita dal subspazio, per l’entrata e l’uscita dallo spazio normale, e per l’atterraggio. Tutti erano disposti sul comando automatico. Poi scoprì lo schermo che indicava il progresso del volo in ore, minuti e secondi. Il tempo per giungere al posto di controllo. Uno era di ore 29,4 minuti, 51 secondi. Fermata, tre ore. Tempo dal posto di controllo alla Terra, 480 ore.
Le luci dei quadranti si accendevano e spegnevano, automaticamente. E Barrent ebbe l’impressione che la presenza di un uomo fosse un sacrilegio in quel tempio delle macchine.
Controllò il quadrante dell’aria. Era disposto per il rifornimento sufficiente a una persona.
Ma dov’era l’equipaggio? Barrent poteva capire le necessità di guidare un’astronave con mezzi automatici. Una struttura così enorme e complessa doveva essere autosuffìciente. Ma gli uomini l’avevano costruita, e gli uomini avevano predisposto tutti i comandi automatici. Perché non erano presenti per il caso che fosse stato necessario variare i programmi stabiliti? Poteva capitare che le guardie dovessero fermarsi più a lungo su Omega. Poteva capitare di dover saltare il posto di controllo e fare ritorno direttamente sulla Terra, o di doversi dirigere verso un’altra destinazione. Chi avrebbe modificato i programmi, chi avrebbe dato i nuovi ordini, chi possedeva un’intelligenza responsabile per dirigere le operazioni?
Barrent si guardò attorno, e scoprì il ripostiglio che conteneva i respiratori a ossigeno. Ne prese uno, e dopo averlo provato uscì nel corridoio.
Percorse tutto il corridoio sino alla porta su cui era scritto “Alloggio Equipaggio”. La stanza era nuda e deserta. I letti, disposti in file ordinate, erano senza lenzuola e coperte. E negli armadi non c’erano indumenti o altri oggetti personali. Uscì da quella stanza, ed entrò nell’alloggio degli ufficiali e del Comandante. Ma anche lì niente indicava che quei locali fossero abitati.
Tornò nella cabina comando. Era evidente ormai che l’astronave non aveva equipaggio. Forse le autorità della Terra, sicure dei loro calcoli di rotta e piene di fiducia nelle astronavi, avevano deciso che i piloti erano superflui.
Però a Barrent questo sistema sembrava piuttosto strano. Era incomprensibile che si permettesse il volo di un’astronave senza la supervisione di un essere umano.
Decise di non trarre conclusioni finché non avesse saputo di più. Per il momento era più importante pensare a sopravvivere. Aveva portato con sé dei cibi concentrati, ma non aveva molta acqua. Avrebbe trovato qualcosa nelle cucine? Poi doveva ricordarsi del distaccamento di guardie presente nella parte inferiore dell’astronave. E doveva pensare al miglior modo di agire nel momento in cui lo scafo si sarebbe fermato al posto di controllo.
Barrent non fu costretto a mangiare i cibi che aveva portato con sé. Nella mensa ufficiali le macchine distribuivano ancora cibo e acqua alla semplice spinta di un bottone. Non riuscì a scoprire se fossero cibi naturali o chimici. Avevano un buon sapore ed erano nutrienti; non si preoccupò d’altro.
Esplorò gran parte dei piani superiori, ma, dopo essersi perso diverse volte, decise di non correre altri rischi. Il centro vitale dell’astronave era la cabina comando, e Barrent rimase in quella stanza per la maggior parte del tempo.
Riuscì a trovare un oblò. Muovendo una leva che apriva gli schermi di protezione, Barrent poté vedere lo spettacolo delle stelle che brillavano nell’oscurità dello spazio. Stelle senza fine che si estendevano oltre ogni limite della sua immaginazione. Guardandole, Barrent si sentì orgoglioso. Quelle stelle sconosciute erano sue, in certo senso.