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Gli si spense la voce ed Eric chiese impaurito: «È così che ci trattano? Ci prenderanno a calci?»

«Ma no!» ribatté il ferito con l’ombra di un sorriso. «È successo così a noi, quando un Titanico, inaspettatamente, ci ha incontrati. Io ero ancora vivo e mi ha portato qui. Sai dove ci troviamo, o no?»

«In gabbia.»

«D’accordo. Siamo in gabbia. Ma sai come si chiama questo posto? È il Centro Controllo Parassiti.»

«Parassiti? Centro Controllo?»

«Io e te, tutti gli esseri umani, per i Titanici siamo dei parassiti» spiegò il ferito, parlando a fatica. «Dopo tutto, dal loro punto di vista non hanno torto: li derubiamo, infestiamo le loro case. Insomma, siamo un fastidio e loro vogliono sbarazzarsi di noi. Questo Centro è appunto un posto in cui studiano i sistemi per farlo. È un laboratorio dove provano tutti i generi di ominicidi: polveri, spray, trappole, cibi avvelenati, tutto, insomma. Ma per esperimentare le loro invenzioni, hanno bisogno di animali da laboratorio. Ecco cosa siamo, noi: cavie.»

Più tardi, quando tutti si erano già addormentati, Eric ripensò a lungo a quello che gli aveva detto Jonathan Danielson.

Centro di Controllo Parassiti….

Animali da laboratorio…

Provano tutti i generi di ominicidi…

16

Non ci fu bisogno di dichiarare ufficialmente l’inizio di un giorno. Furono svegliati dal getto di una gran quantità di cibo che un tubo trasparente, sorretto da un Titanico, riversava nella gabbia.

Dopo un primo momento di diffidenza, perché non tutto il cibo era uguale a quello che già conoscevano, gli uomini si decisero a mangiare. Era alquanto insipido, ma non cattivo. Quando ebbero finito, il Titanico inserì nella gabbia un altro tubo, direttamente sopra al buco di scolo, e versò acqua. Tutti bevvero, e contemporaneamente l’acqua ripulì il fondo della gabbia dai rifiuti che vi si erano accumulati dal giorno prima.

Eric si affrettò a riempire la borraccia e ordinò a Roy di fare altrettanto e di andare a dare da bere al ferito. Dopo avere brontolato un poco, Roy ubbidì e si allontanò con la borraccia. Poco dopo, il getto dell’acqua diminuì fino a cessare, e il Titanico ritirò il tubo. Ma non si allontanò. Due tentacoli rosa, dai quali pendeva una corda verde, apparivano al di sopra della gabbia: la corda scese vibrando e contorcendosi, si avvicinò a uno dei prigionieri che guardava verso l’alto con aria attonita e spaventata, gli si attaccò alla schiena e tornò a sollevarsi trascinando con sé il prigioniero. Questi era ancora talmente sbalordito, che non pensò nemmeno a dibattersi e a gridare.

Eric lo seguì con lo sguardo, fremendo di rabbia impotente, poi si recò dal ferito, a cui Roy stava dando da bere.

Jonathan Danielson stava molto male. Aveva tutto il corpo gonfio ed era pallidissimo. Respirava a fatica e riusciva appena a parlare.

Quando Eric gli disse che un Titanico aveva estratto un prigioniero dalla gabbia, e gli chiese cosa ne avrebbe fatto, il ferito sollevò con fatica una mano e mormorò: «Da quella parte… Se andate là, vedrete…»

Molti seguirono Eric nel punto indicato dal ferito. Di lì, attraverso la parete trasparente e nonostante l’intrico delle sbarre e l’ostacolo delle altre gabbie, si riusciva a scorgere un’ampia superficie bianca, sorretta da tubi che partivano dal pavimento. A quella distanza, pareva piccola, ma quando il Titanico vi ebbe depositato il prigioniero, al quale legò accuratamente braccia e gambe mediante morsetti attaccati alla superficie bianca, Eric dovette constatare che, su quella specie di tavolo, avrebbe potuto trovare posto comodamente tutta l’Umanità.

Dapprima non riuscì a capire bene quello che il Titanico stava facendo. Vicino all’uomo legato c’era un groviglio di corde verdi, alcune grosse e avvolte a spirale, altre lunghe e rigide. Il Titanico prendeva una di quelle corde, toccava l’uomo, deponeva la corda, ne prendeva un’altra… Il corpo del prigioniero s’irrigidiva e sussultava. Tutti stavano protesi col naso schiacciato contro la parete, il fiato sospeso… E d’un tratto Eric capì cosa stava facendo il Titanico.

«Gli strappa la pelle!» gridò inorridito.

«Lo fa a pezzi» esclamò una voce vicino a lui.

«Gli ha strappato le gambe e le braccia» mormorò un altro con voce tremante di terrore.

«Bastardi! Maledetti! Perché fanno questo?»

Dal corpo martoriato del prigioniero scorrevano rivoli di sangue che spiccava vermiglio sul ripiano bianco. Probabilmente il poveretto urlava di dolore, ma era troppo lontano perché loro potessero sentirlo.

Intanto il Titanico continuava calmo e metodico nel suo lavoro, servendosi dei diversi strumenti verdi che aveva a disposizione.

Eric notò che molti dei suoi compagni avevano distolto lo sguardo da quello spettacolo orribile. Molti piangevano o si coprivano la taccia con le mani. Tutti erano pallidi e sconvolti.

«Ma perché fanno una cosa simile?» mormorò uno, con voce rotta. «Che cosa vogliono? Perché?»

Ma Eric si sforzò di continuare a guardare. Era un Occhio lui, ed era suo compito vedere tutto. Inoltre, qualunque cosa avesse potuto apprendere sul conto dei Titanici, un giorno o l’altro avrebbe potuto essere utile.

Vide che quanto restava del disgraziato era oramai immobile, immerso in una pozza di sangue. Il Titanico girò il collo, e un tentacolo afferrò un tubo trasparente. Un attimo dopo, un fiotto d’acqua si riversò sul cadavere, lavandolo e lavando il sangue che era sgorgato dalle ferite. Acqua e sangue finirono in un foro rotondo che si apriva al centro della superficie bianca. Quando tutto fu pulito, il Titanico spinse anche il cadavere col getto d’acqua, finché non venne inghiottito dal foro. Poi lavò gli strumenti verdi con cui l’aveva ucciso. Infine il tentacolo lasciò andare il tubo, e il Titanico si allontanò dal tavolo tornato candido.

A testa china, sconvolto e in preda a un violento senso di nausea, Eric si volse e tornò da Jonathan Danielson.

Prima che Eric avesse avuto il tempo di fargli una domanda, Danielson disse: «Vivisezione. Vogliono scoprire se noi, esseri umani, siamo tutti uguali. Credo che sezionino un uomo per ogni gruppo che catturano.» S’interruppe per respirare. «Hanno fatto così anche a un mio compagno: Saul Davidson.»

«E si serviranno di noi per altri esperimenti, suppongo» disse Eric.

«Sì…» mormorò il ferito, «almeno a giudicare da quello che ho visto nelle altre gabbie. Ti ricordi quando dicevo che sarebbe meglio morire tentando di scappare?»

«Sai come funzionano quelle strane corde verdi?»

«Il principio fondamentale è l’affinità protoplasmatica. È un argomento, questo, sul quale i Titanici hanno compiuto studi importanti, ultimamente. Io e i miei compagni eravamo venuti qui proprio per questo.»

«Ma cosa significa?» chiese Eric.

«Affinità protoplasmatica» ripeté la fievole voce del ferito. «Hai mai visto una delle porte scorrevoli, che si aprono e chiudono come tende, nelle pareti dei cunicoli titanici? Basta toccarle e non si muovono più.»

Eric annuì, ricordando la fessura attraverso la quale Walter era riuscito a malapena a passare, mentre lui e Roy spingevano i lati opposti della parete scorrevole, senza fatica.

«Ebbene, il principio in base al quale funzionano quelle porte è esattamente il contrario: incompatibilità protoplasmatica.»

«Sì, credo di capire… ma cosa significa quella strana parola… protopla… pla…»

Il ferito alzò gli occhi al cielo: «È mai possibile» esclamò con insospettata foga, «che tu sia selvaggio al punto da ignorare cosa sia il protoplasma? In nome di Aaron, è davvero incredibile!»

«Aaron?» ripeté Eric, lieto di cambiare discorso. «Sei della Gente di Aaron, tu?» chiese, memore di quanto gli aveva raccontato Arthur in proposito.