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Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: "Ma quindici anni sono così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a distribuire la responsabilità. Quindici anni è un'età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie".

Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né c'erano autorità o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando si catapultano dal palco sugli spettatori. Il fere tro ondeggiava nel lago di dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero. Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna. Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: "I miei nipoti anche se disoccupati non avrebbero mai fatto ra

pine…". E continuando nervosa: "Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?"

Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica bisbigliò: "Il fatto è che qui si impara solo a morire".

"Cosa padre?"

"Niente signora, niente."

Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese perché lavorano sulle grandi griffe. Velocità e qualità. Altissima qualità. Il monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arza-no, e via via tutta la Las Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene. Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro. Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metà dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro volerebbe via dall'Italia. Gli imprenditori di queste parti conoscono a memoria questa logica. In queste fabbriche spesso non c'è astio tra operai e proprietari. Qui il conflitto di classe è molle come un biscotto spugnato. Il padrone spesso è un ex operaio, condivide le ore di lavoro dei suoi dipendenti, nella stessa stanza, sullo stesso scranno. Quando sbaglia paga direttamente con ipoteche e prestiti. La sua autorità è paternalistica. Si litiga per un giorno di ferie e per qualche centesimo di aumento. Non c'è contratto, non c'è burocrazia. Volto contro volto. E si tracciano così gli spazi delle concessioni e degli obblighi che hanno il sapore dei diritti e delle competenze. La famiglia dell'imprenditore vive al piano di sopra dove si lavora. In queste fabbriche spesso le operaie affidano i loro bambini alle figlie del proprietario che diventano babysitter o alle madri che si trasformano in nonne vicarie. I bambini delle operaie crescono con le famiglie dei proprietari. Tutto questo crea una vita comune, realizza il sogno orizzontale del postfordismo — far condividere il pranzo a operai e dirigenti, farli frequentare nella vita privata, farli sentire parte di una stessa comunità.

In queste fabbriche non ci sono sguardi che fissano il terreno. Sanno di lavorare sull'eccellenza, e sanno di avere stipendi infimi. Ma senza l'uno non c'è l'altro. Si lavora per prendere ciò di cui hai bisogno, nel miglior modo possibile, così nessuno troverà motivo per cacciarti. Non c'è rete di protezione. Diritti, giuste cause, permessi, ferie. Il diritto te lo costruisci. Le ferie le implori. Non c'è da lagnarsi. Tutto accade come deve accadere. Qui c'è solo un corpo, un'abilità, una macchina e uno stipendio. Non si conoscono dati precisi su quanti siano i lavoratori in nero di queste zone. Né quanti invece siano regolarizzati, ma costretti ogni mese a firmare buste paga che indicano somme mai percepite.

Xian doveva partecipare a un'asta. Entrammo nell'aula di una scuola elementare, nessun bambino, nessuna maestra. Solo i fogli bristol attaccati alle pareti con enormi letterone disegnate. In aula aspettavano una ventina di persone che rappresentavano le loro aziende, Xian era l'unico straniero. Salutò soltanto due dei presenti e senza neanche troppa confidenza. Un'auto si fermò nel cortile della scuola. Entrarono tre persone. Due uomini e una donna. La donna aveva una gonna di pelle, tacchi alti, scarpe di vernice. Si alzarono tutti a salutarla. I tre presero posto e iniziarono l'asta. Uno degli uomini tirò tre linee verticali sulla lavagna. Iniziò a scrivere sotto dettatura della donna. La prima colonna:

"800"

Era il numero di vestiti da produrre. La donna elencò tipi di stoffa e qualità dei capi. Un imprenditore di Sant'Antimo si avvicinò alla finestra e dando le spalle a tutti propose il suo prezzo e i suoi tempi:

"Quaranta euro a capo in due mesi…"

Venne tracciata sulla lavagna la sua proposta.

"800 / 40 / 2"

I visi degli altri imprenditori non sembravano preoccupati. Non aveva osato con la sua proposta entrare nelle dimensioni dell'impossibile. E questa cosa evidentemente faceva piacere a tutti. Ma i committenti non erano soddisfatti. L'asta continuò.

Le aste che le grandi griffe italiane fanno in questi luoghi sono strane. Nessuno perde e nessuno vince l'appalto. Il gioco sta nel partecipare o meno alla corsa. Qualcuno si lancia con una proposta, dettando il tempo e il prezzo che può sostenere. Ma se le sue condizioni saranno accettate non sarà l'unico vincitore. La sua proposta è come una rincorsa che gli altri imprenditori possono tentare di seguire. Quando un prezzo viene accettato dai mediatori gli imprenditori presenti possono decidere se partecipare o meno; chi accetta riceve il materiale. Le stoffe. Le fanno inviare direttamente al porto di Napoli e da lì ogni imprenditore le va a prendere. Ma uno soltanto verrà pagato a lavoro ultimato. Quello che consegnerà per primo i capi confezionati con elevatissima qualità di fattura. Gli altri imprenditori che hanno partecipato all'asta potranno tenersi i materiali, ma non avranno un centesimo. Le aziende di moda ci guadagnano così tanto che sacrificare stoffa non è una perdita rilevante. Se un imprenditore per più volte non consegna, sfruttando l'asta per avere materiale gratuito, viene escluso da quelle successive. Con quest'asta, i mediatori delle griffe si assicurano la velocità di produzione, perché se qualcuno tenta di rimandare qualcun altro ne prenderà il posto. Nessuna proroga è possibile per i tempi dell'alta moda.