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— Credo di sì — rispose il Gesuita. — Purché mi sia consentito di inserire questo lavoro fra la nascita definitiva del figlio di Chtexa e il mio pellegrinaggio.

Michelis inarcò nuovamente le sopracciglia: — Già, questo è un Anno Santo, no?

— Appunto — disse Ruiz-Sanchez.

— Oh, credo proprio che riusciremo a farcela — disse Michelis. — Ma… scusate la mia indiscrezione, Ramon, ma non mi sembrate un uomo che abbia urgente bisogno del grande perdono. Ciò forse significa che avete cambiato idea nei riguardi di Lithia?

— No, non ho cambiato idea — rispose Ruiz-Sanchez a bassa voce. — Abbiamo tutti bisogno del grande perdono, Mike. Ma non è per questo che vado a Roma.

— Allora…?

— Prevedo che dovrò esservi giudicato per eresia.

CAPITOLO UNDICESIMO

Una vaga luce pioveva sulla zona acquitrinosa in cui giaceva Egtverchi, in un punto ad oriente dell’Eden, ma il giorno e la notte non erano ancora stati creati e non c’erano ancora né vento né onde a sospingerlo, mentre espelleva, con latrati, l’acqua dai polmoni e urlava nell’aria rovente. Pieno di speranza, agitò le membra spuntategli di recente ed ebbe una sensazione di movimento; ma non c’era luogo ove andare, non c’era nulla da cui fuggire. La luce, invariabile e grigia, assomigliava in modo rassicurante a un cielo perpetuamente coperto, ma Qualcuno aveva trascurato di dargli quel periodo regolare di tenebra e di nulla in cui l’animale, rafforzandosi dopo i suoi insuccessi, cerca nelle profondità del suo Io la gioia sufficiente ad accogliere un altro giorno nuovo.

«Gli animali non hanno anima», aveva detto Cartesio, gettando un gatto dalla finestra per dimostrare, se non il suo assunto, la sua fede, almeno, in esso. Il timido genio del razionalismo meccanicistico, che sapeva bene gettare gatti dalla finestra, ma non sapeva affatto barcamenarsi coi Papi, non aveva mai visto un vero automa, così che non s’era mai accorto che all’animale non l’anima manca, ma la mente. Una calcolatrice elettronica che possa in due secondi e mezzo soddisfare i parametri delle equazioni di Haertel per tutti i valori possibili è intellettualmente un genio, ma per quel che riguarda le emozioni è uno zero, anche a paragone di un gatto.

Esattamente come l’animale che, incapace di pensare, reagisce alle esperienze di ogni istante con la pienezza di emozioni immediatamente accusate (e immediatamente dimenticate) da tutto il suo corpo, ha bisogno di quella morte temporanea che è la notte per prolungare la sua esistenza, l’animale neonato ha bisogno delle battaglie della giornata per divenire l’adulto sonnolento e fiducioso a cui lo destinano i suoi geni; e anche in ciò Qualcuno aveva negletto Egtverchi. Alla fanghiglia era stata aggiunta una certa quantità di sapone, accuratamente dosata, in modo da consentirgli di dimenarsi sul pavimento della sua gabbia, ma non di progredire abbastanza da urtare la testa contro le pareti di essa. Ciò gli salvava la testa, ma rendeva inutili i muscoli delle sue zampe. Quando il suo periodo di gracidii fu terminato ed egli divenne un animale saltatore, si poté constatare che non saltava molto bene.

Ma anche questo, in un certo senso, era stato previsto. Non esisteva cosa alcuna, in questa sua infanzia, da cui avesse bisogno di fuggire a grandi balzi terrorizzati, né v’era luogo in cui un breve salto potesse portarlo. Anche il più lieve balzo finiva sempre con un urto invisibile, seguito da una scivolata alla quale nessun istinto lo aveva mai preparato: essa risultava sempre innocua, ma nessuno dei suoi riflessi lo aiutava a rialzarsi con eleganza. Del resto, un animale che ha sempre la coda dolorante non può essere certo elegante, indipendentemente dai suoi istinti.

Alla fine, dimenticò del tutto come saltare e si limitò a restarsene accoccolato in un angolo, aspettando la trasformazione successiva, e lanciando occhiate cupe alle teste che cominciavano ad affollarsi intorno a lui, nelle sue ore di veglia. Quando poté rendersi conto del fatto che quegli osservatori erano vivi come lui, ma molto più grandi, i suoi istinti erano talmente intorpiditi che ne risultò solo una vaga inquietudine, incapace di qualunque azione.

La nuova metamorfosi fece di lui un animale in grado di camminare, dalle gambe gracili e fiacche, dalla testa troppo grossa, inetta a valutare le distanze. Fu a questo punto che Qualcuno provvide a farlo trasferire nel terrario.

Qui finalmente gli ormoni della sua adolescenza si svegliarono e cominciarono a scorrergli nel sangue. Le risposte appropriate a un mondo come quella minuscola giungla erano state iscritte imperativamente su ognuno dei suoi cromosomi; e qui, tutto ad un tratto, egli si sentì quasi a casa sua. Cominciò a camminare sulle gambe malferme nella verzura del terrario, con un surrogato di gioia, cercando qualche cosa da fuggire qualche cosa da combattere, qualche cosa da mangiare, qualche cosa da imparare. Tuttavia, alla lunga, fu molto se poté trovare un angolo per dormire, che, nel terrario, la notte era più sconosciuta che mai.

Fu sempre là che per la prima volta divenne consapevole di certe differenze tra le creature che lo osservavano e talvolta lo molestavano. Due di esse erano quasi sempre visibili, separatamente o insieme; erano quelle che lo molestavano, anche se non sempre si trattava di maltrattamenti, che talvolta questi esseri, con le loro cocenti punture e le loro mani maldestre, gli davano da mangiare qualche cosa che egli non aveva assaporato o gli facevano qualche altra cosa che gli piaceva e lo infastidiva insieme. Non riusciva a comprendere quella situazione, ma essa non gli era gradita.

Dopo qualche tempo, si sottrasse alla vista di tutti gli osservatori, eccettuati quei due (quando non si sottraeva anche a questi, dato che passava il suo tempo a dormire). Quando ne aveva bisogno, chiamava: «Szan-cetz». (Non poteva dire «Liu»: la sua lingua legata al mesenterio e il suo palato quasi fesso ancora non potevano dominare una combinazione così ardua di liquide: doveva attendere di essere adulto per cose del genere.)

Poi cessò di chiamare e prese l’abitudine di restarsene apaticamente acquattato presso lo stagno al centro della giungla in miniatura. L’ultima sera della sua esistenza di lucertola, nel porre la protuberante scatola cranica nella cavità muscosa dove faceva più buio, sentì nel sangue che all’indomani, quando si fosse destato al suo destino di creatura pensante, sarebbe stato vecchio di quell’età che è la maledizione di coloro i quali non sono mai stati giovani un solo istante. Domani, sarebbe stato una creatura pensante, ma quella sera la stanchezza era in lui…

E poi si svegliò; e il mondo com’era cambiato! Le porte molteplici che pongono in comunicazione i sensi con l’anima s’erano chiuse; improvvisamente, il mondo era diventato una cosa astratta. Egli aveva compiuto il passaggio dall’animale all’automa, che tanti guai aveva destato, ad oriente dell’Eden, nel 4004 a.C.

Non era un uomo, ma avrebbe dovuto lo stesso dare il suo tributo per il pedaggio di quel ponte. A partire da quel momento, nessuno più sarebbe stato in grado di indovinare che cosa egli sentisse nella sua anima animale, lui stesso meno d’ogni altro.

— Chi sa a che cosa pensa? — domandò Liu perplessa, fissando la testa enorme, grave, del Lithiano, che si chinava verso di loro dall’altro lato della porta di piroceram trasparente. Egtverchi (egli aveva detto loro il suo nome prestissimo) poteva sentirla, anche se il laboratorio era diviso in due; ma non disse nulla. Finora s’era mostrato tutt’altro che ciarliero, sebbene lettore vorace.

Ruiz-Sanchez non rispose, anche se il giovane Lithiano, alto quasi tre metri, destava in lui un sentimento di perplessità e di timore: lo stesso sentimento che egli, Ruiz-Sanchez, destava in Liu… ma il Gesuita riteneva che le sue ragioni d’allarme nei riguardi del Lithiano fossero più importanti! Lanciò un’occhiata in direzione di Michelis.