Nel mondo, apprese Agronski nella sua generale nausea, non c’era nulla che fosse altrettanto certo. Alla fine, i suoi colleghi di Fordham gli parvero altrettanto remoti quanto lo era stato, su Lithia, Ruiz-Sanchez. Nel 2050 la Chiesa Cattolica Romana era sempre la quarta del pianeta come numero di fedeli: dopo Isiam, Buddismo, e le sette Hindi. Dopo il Cattolicesimo veniva il numero confuso delle chiese protestanti, che poteva forse superare i cattolici se si incameravano in esso tutti coloro che nel mondo non avevano una fede ben definita; ed era probabile che agnostici, atei e altri senza interessi, presi come gruppo separato, fossero numerosi almeno come gli ebrei, e forse anche di più. Quanto allo stesso Agronski, egli non apparteneva a nessuno di questi gruppi: si stava allontanando alla deriva; stava lentamente cominciando a dubitare dell’esistenza dell’universo fenomenico stesso, e non poteva indursi a speculare su una cosa, probabilmente irreale, fino a convincersi che aveva importanza l’organizzazione intellettuale che gli veniva imposta sopra, Alto Anglicana o Logico Positivista che fosse. Quando una persona non prova più interesse per le bistecche, che gli importa del modo in cui sono state fatte crescere, macellate, cucinate e servite?
Ora, l’invito alla festa in onore di Egtverchi era quasi riuscito a forare la densa nebbia ch’era calata come una pesante cortina fra lui e il resto del Creato. Aveva creduto che la vista di un Lithiano vivo avrebbe fatto qualche cosa, sebbene non sapesse precisamente che cosa. Senza contare che aveva una gran voglia di rivedere Mike e il Padre, memore di essere stato un tempo loro amico. Ma il Padre era partito e Mike di quanti anni luce s’era allontanato, ora che aveva stretto relazione con una donna (e di tutte le insignificanti ossessioni dell’umanità, Agronski era oggi deciso ad evitare soprattutto la tirannia del sesso). Quanto allo stesso Egtverchi, non si rivelava che una caricatura terrestre e inquietante di ciò che Agronski ricordava dei Lithiani. Disgustato di sé e degli altri, Agronski aveva badato bene a tenersi in disparte dal resto della compagnia e così facendo s’era ubriacato senza rendersene conto. Non ricordava altri particolari del ricevimento, salvo il fatto di fare a pugni con qualcuno in una ampia sala scura, circondata da travi metalliche: come essere all’interno della Torre Eiffel a mezzanotte. Questo ricordo pareva comprendere delle inesplicabili nubi di vapore, e delle scosse che intensificavano la sua nausea, come se lui e il suo anonimo avversario fossero stati calati nell’inferno mediante un pistone idraulico lungo mille chilometri.
Quando s’era svegliato verso mezzodì del giorno dopo, la sua vertigine era aumentata di mille volte, insieme con l’orribile sensazione d’essere destinato a un olocausto, e il peggior mal di testa che ricordasse dal giorno in cui, al primo anno d’università, s’era ubriacato di sherry. Gli ci vollero due giorni per liberarsi dei postumi di tanta intossicazione, ma le sensazioni sgradevoli persistettero. Non poteva sopportare il cibo, le parole sulla carta non avevano senso, non poteva fare un passo dalla sua poltrona senza chiedersi se al passo successivo il mondo non rischiava di capovolgersi o scomparire. Nulla più aveva colore, volume, massa o struttura: le proprietà secondarie delle cose, che avevano continuato a sfuggire dal suo mondo fin da quell’episodio su Lithia, ormai erano fuggite del tutto, e le qualità primarie le stavano seguendo velocemente.
La fine era chiara e prevedibile. Non sarebbe rimasto altro che il minuscolo plesso di abitudini acquisite, al centro del quale sarebbe vissuta quell’entità fuggevole, misteriosa, che era il suo Io. Quando una di queste abitudini lo portò davanti al televisore, facendogli girare la manopola, era troppo tardi per salvare qualcosa. Non c’era più nessuno nell’universo, tranne lui, più nessuno e più niente.
Salvo che, quando lo schermo s’illuminò ed egli non vide apparire Egtverchi, si accorse che perfino quell’Io non aveva più nome. Entro il sottile involucro di una rinunciataria coscienza di sé, non restava altro che un vuoto, così vuoto come un vaso capovolto.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Ruiz-Sanchez si lasciò cadere in grembo la sottile lettera giunta con la posta aerea, e guardò senza vedere fuori del finestrino del rapido. Il treno aveva lasciato Napoli da un’ora e si trovava a mezza strada da Roma, ma Ruiz non aveva visto nulla di quel paesaggio che per tutta la vita aveva desiderato di conoscere. Ora aveva mal di capo. La scrittura di Michelis era quasi illeggibile. Il chimico doveva aver scritto quella lettera nelle peggiori circostanze che si potessero immaginare.
E dopo che l’emozione aveva peggiorato la calligrafia di Michelis, la fotocopiatrice l’aveva ridotta di dimensioni per farla stare su un singolo foglio di carta ultra-leggera per la posta via missile, e soltanto un uomo che conoscesse quella calligrafia come un assiriologo conosce il cuneiforme poteva sperare di decifrare quelle zampe di gallina.
Dopo qualche istante, Ruiz-Sanchez riprese a leggere da dove si era interrotto. Michelis diceva:
«È per questo che non ho assistito al crollo completo che è poi seguito. Sono ancora in dubbio quanto all’intera responsabilità di Egtverchi: forse i fumi esilaranti della Contessa hanno colpito anche lui, o lo hanno più o meno alterato, poiché il suo metabolismo, tutto sommato, non può essere del tutto differente dal nostro; ma naturalmente voi siete più in grado di me di valutare la cosa. Forse le mie illazioni non hanno alcun fondamento.
«Comunque, non ne so di più sulle devastazioni commesse nei piani inferiori di quel che abbiano detto i giornali. Qualora non li aveste letti, eccovi l’accaduto: Egtverchi e i suoi bravacci, bruscamente spazientiti, sia perché il trenino non avanzava con la velocità che essi avrebbero preferito, sia perché le attrazioni che si potevano vedere da esso non bastavano loro, sono partiti per una spedizione privata, non esitando ad abbattere le pareti divisorie tra le varie stanze, quando non riuscivano ad entrarvi in altro modo. Egtverchi, sebbene ancora abbastanza debole per un Lithiano, è tuttavia altissimo e le pareti divisorie non sembrano avere rappresentato per lui un problema.
«Ciò che è accaduto in seguito è piuttosto confuso e dipende molto dal giornalista di cui ci si fida di più. In base all’idea che ho potuto farmi fra tanti resoconti contraddittori, pare che Egtverchi non abbia fatto male a nessuno e che, se i suoi scherani si sono abbandonati ad atti di violenza, se ne sono prese nella misura in cui ne hanno date. Uno di loro è morto. Vittima principale dell’episodio è la Contessa, completamente rovinata. Alcune delle stanze in cui Egtverchi s’era introdotto e che non si trovavano sul percorso del trenino, ospitavano personaggi d’altro bordo. Essi sono stati scoperti nelle situazioni poco onorevoli previste per loro dai procuratori di gioia della Contessa. Quelli non ancora rovinati dallo scandalo sono decisi a vendicarsi sulla casa d’Averoigne.