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Per un’astronave a razzo certe orbite sono possibili, certe altre sono impossibili. Un incrociatore da guerra impegnato in una missione urgente non avrebbe, naturalmente, usato la più economica ellisse a doppia tangente; in un viaggio simile, per coprire la distanza tra la Terra e Marte sarebbero occorsi 258 giorni terrestri. Ma anche usando delle iperboloidi, e specando molto carburante, esistono dei limiti rigorosi alla velocità con la quale un’astronave a reazione può compiere un viaggio interplanetario.

Un calendario terrestre era appeso accanto alla mappa cosmica; vicino a esso c’era un orologio che segnava il tempo terrestre di Greenwich. Affissa accanto all’orologio c’era una cifra, che veniva cambiata ogni volta che l’orologio indicava le ventiquattro e zero/zero, il numero dei giorni che mancavano all’attacco a Marte… secondo i calcoli più precisi che erano riusciti a compiere, ora ne mancavano soltanto trentanove.

Don viveva in una specie di paradiso del combattente… cibo caldo servito all’ora precisa, cibo ottimo, e a volontà, e tutto il tempo libero che voleva, e abiti puliti, corpo pulito, bagno tiepido o caldo a volontà, nessun dovere e nessun rischio. Era un vero paradiso; era il sogno di chi combatteva per giorni e mesi e anni nella fanghiglia, nel pericolo, mangiando quando capitava, quello che capitava, dormendo a ore impossibili e spesso per pochi minuti soltanto, vivendo tra rischi inenarrabili, aspettando, da un momento all’altro, il colpo che avrebbe posto fine a tutte quelle sofferenze. Un vero paradiso; l’unico inconveniente fu che, dopo pochissimo tempo, egli cominciò a detestare quel tipo di vita.

L’attività intensa, febbrile che si svolgeva intorno a lui lo riempiva di vergogna, e gli faceva provare il desiderio di collaborare, di contribuire in qualche maniera al lavoro comune… ed effettivamente cercò di rendersi utile… fino a quando non scoprì che gli venivano dati dei lavori inutili, inventati sul momento, tanto per farlo stare quieto. In realtà, non c’era nulla che lui potesse fare, per contribuire all’impresa; gli specialisti affannosamente impegnati nel loro lavoro; sudati, nervosi, non avevano tempo da perdere con un assistente privo di addestramento; il compito di arrangiare con mezzi di fortuna apparecchi che erano il frutto di una tecnologia completamente nuova e rivoluzionaria, e di svolgere un lavoro di anni in pochissimi giorni, con il rischio di commettere errori irreparabili… tutto questo impediva loro di dedicarsi ad altro. Così Don rinunciò al suo tentativo, e ritornò a oziare; scoprì che poteva dormire bene nel pomeriggio, ma che l’addestramento e l’ormai radicata consuetudine gli impediva di chiudere occhio di notte. Così le lunghe notti lui le passava sveglio, a riflettere, ad aspettare, a pensare.

Si domandò per quale motivo non riusciva a godersi una licenza così piacevole, un momento di tregua che tutti avrebbero sognato. Non era certo perché lui fosse preoccupato per i suoi genitori…

Sì, invece! Benché il loro ricordo fosse sbiadito nella memoria di Don, la sua coscienza gli rimproverava aspramente il fatto che lui non facesse nulla di utile per aiutarli. Era per questo che lui voleva andarsene, allontanarsi da quel luogo nel quale lui non serviva a niente, non poteva fare nulla di buono… era per questo che lo divorava il desiderio di ritornare alla sua compagnia, al suo lavoro… là, dove non c’era nulla di cui preoccuparsi, tra un’incursione e l’altra… e quando veniva il momento dell’incursione, i motivi di preoccupazione erano tanti, e pressanti, e dominanti. Con l’oscurità intorno e il suono del respiro del vostro compagno a destra, e lo stesso suono che veniva dall’uomo alla vostra sinistra… con il fango sotto il corpo, viscido e appiccicoso, e la protezione della notte che era anche un’insidia… la lenta avanzata strisciante, il tentativo estenuante di scoprire quali sporchi trucchi avessero escogitato questa volta i tecnici dei Verdi, per proteggere il loro sonno… il momento rapido dell’attacco, colpire in fretta… e il ritorno fulmineo, disperato alla barca, senza nulla a guidarvi nelle fittissime tenebre della notte venusiana, ma solo con il radar che ognuno possiede nelle proprie ossa…

In quei momenti non ci si preoccupava d’altro che dell’azione e della propria vita. E tra un’azione e l’altra, c’era il riposo, e nessun pensiero nella mente…

Lui voleva tornare indietro.

Andò a cercare Phipps, deciso a parlargli di questo, e lo trovò nel suo ufficio.

«Lei, eh? Vuole una sigaretta?»

«No, grazie.»

«Tabacco vero… non la vostra ‘erba pazza’.»

«No, grazie, non fumo.»

«Be’, forse ha ragione lei. È fortunato. Ho un sapore in bocca al mattino, quando mi sveglio, che…» Phipps si accese una sigaretta, si appoggiò allo schienale della sedia, e aspettò.

Don disse:

«Vede… lei è il capo, qui.»

Phipps esalò una boccata di fumo, poi disse, in tono cauto.

«Diciamo che qui io sono il coordinatore. Certamente, non provo neppure a dirigere il lavoro dei tecnici.»

Don fece un gesto con la mano, come se il ‘distinguo’ di Phipps fosse stato privo d’importanza.

«Per quello che mi riguarda, lei è il capo, qui. Almeno per i motivi che mi hanno spinto a venire da lei. Mi ascolti, signor Phipps… qui mi sento inutile. Non può disporre affinché io possa ritornare alla mia compagnia?»

Phipps fece un perfetto anello di fumo, prendendo un po’ di tempo, prima di rispondere.

«Mi dispiace che lei pensi una cosa simile. Io potrei darle del lavoro da fare. Potrebbe essere il mio assistente esecutivo.»

Don scosse il capo.

«Ne ho abbastanza di lavoro prefabbricato per tenermi buono. Voglio del lavoro vero… del lavoro che io sappia fare. Io sono un soldato, e c’è una guerra in corso… ed è quello il mio posto. E adesso mi dica… quando potrò ottenere un mezzo di trasporto, per ritornare alla mia compagnia?»

«Non può farlo.»

«Eh?»

«Signor Harvey, non posso lasciarla andare via; lei sa troppe cose. Se ci avesse consegnato l’anello senza fare domande, sarebbe stato riportato al luogo di provenienza, e restituito alla sua compagnia, nel giro di un’ora… ma lei doveva sapere tutto, doveva chiedere tutto. E adesso, non osiamo mandarla via; non possiamo correre il rischio che lei sia catturato. Lei sa che i Verdi sottopongono ogni prigioniero a un interrogatorio completo; non possiamo correre questo rischio… non ancora.»

«Ma… accidenti, signore, io non sarò mai catturato! Ho preso questa decisione già da molto tempo; ormai lo so.»

Phipps si strinse nelle spalle.

«Se lei si fa uccidere, o se riesce a suicidarsi in tempo, sarebbe tutto a posto. Ma di questo non possiamo essere sicuri, indipendentemente da quella che può essere la sua determinazione. C’è stato un precedente sulla Terra; le conseguenze sono state catastrofiche. Non possiamo correre questo rischio; la posta in gioco è troppo grande.»

«Lei non può trattenermi qui! Lei non ha alcuna autorità su di me!»

«No, infatti. Però resta il fatto che non può andare via.»

Don aprì la bocca, la richiuse, e uscì dall’ufficio.

Si svegliò, il mattino dopo, deciso a prendere qualche provvedimento per risolvere la situazione. Doveva fare qualcosa; non poteva restare là per sempre. Ma il dottor Conrad si era alzato prima di luì, e prima di uscire indugiò per dargli un suggerimento.

«Don?»

«Sì, Rog?»

«Se riesci a svegliarti del tutto, potresti venire nel laboratorio, stamattina. Ci sarà uno spettacolo degno di essere visto… spero.»

«Uh? Che cosa? E a che ora?»

«Oh, diciamo verso le nove.»