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«Molto bene, capitano… vediamo cosa succede.»

A Don parve che fosse caduta improvvisamente la notte, e che essi fossero entrati immediatamente in caduta libera. Il suo stomaco, abituato ormai da tempo alla gravità abbastanza ridotta di Venere, cominciò a sobbalzare e a lamentarsi con estremo vigore. Conrad, che non si era assicurato alle cinture, stava galleggiando nell’aria, ancorato al suo quadro di comando con una mano.

«Spiacente, signori,» disse. «Una piccola distrazione. E adesso regoliamo questo ‘punto’ alla norma-Marte, per favorire il nostro passeggero.» Manipolò per qualche istante i suoi apparecchi.

Lo stomaco di Don tornò bruscamente al suo posto, quando un peso del tutto soddisfacente — per quella situazione — di circa un terzo di gravità sostituì l’imponderabilità della caduta libera. Conrad disse:

«Molto bene, capitano, può ordinare di aprire le cinture.»

Qualcuno, alle spalle di Don, disse:

«Che è successo? Non ha funzionato?»

Conrad rispose:

«Oh, sì, ha funzionato. In effetti, abbiamo accelerato a circa…» Fece una pausa, per studiare i suoi quadranti, «A circa venti gravità, dal momento in cui abbiamo lasciato l’atmosfera.»

L’astronave rimase circondata dalle tenebre, isolata dal resto dell’universo da quella che veniva inadeguatamente descritta come una ‘discontinuità’, a eccezione di pochi minuti, a intervalli di due turni di guardia, quando Conrad toglieva il campo di energia per permettere al capitano Rhodes di compiere le rilevazioni necessarie a seguire la rotta; in quei periodi, era possibile vedere lo spazio, e l’universo stellato, e il problema dell’astronavigazione era risolto con una certa facilità. Durante quei periodi, gli occupanti dell’incrociatore erano in caduta libera, e le stelle ardevano vivide nello spazio di velluto, visibili attraverso gli oblò. Poi le tenebre si richiudevano intorno a loro, e il Little David ritornava nel suo piccolo, limitato mondo autonomo.

Il capitano Rhodes mostrò una persistente tendenza a bestemmiare sommessamente tra sé, dopo ogni ‘uscita’ nello spazio normale, e a rifare per almeno tre volte i suoi calcoli.

Tra una pausa e l’altra, Conrad teneva le sue lezioni di ‘applicazione dei trabìccoli’; queste lezioni duravano per tutte le ore che Conrad riusciva a trascorrere sveglio. Don trovò tutte le spiegazioni incomprensibili, come quella che Conrad aveva dato a Phipps a suo tempo.

«Il fatto è che non ci arriviamo, Rog,» confessò, dopo che il loro istruttore ebbe ripetuto lo stesso concetto per tre volte di seguito.

Conrad si strinse nelle spalle, e sorrise.

«Non lasciarti abbattere. Quando avrai collaborato a installare lo stesso equipaggiamento a bordo della tua astronave, saprai tutto, allo stesso modo in cui i tuoi piedi conoscono le scarpe. Nel frattempo, ricominciamo dall’inizio.»

A parte le lezioni, non c’era niente da fare, e l’astronave, in ogni caso, era troppo piccola e troppo affollata. Iniziò una partita a carte, che continuò a svolgersi in pratica senza interruzioni, semplicemente cambiando i giocatori di quando in quando. Don fin dall’inizio aveva poco denaro da giocare; dopo qualche partita, fu completamente al verde, e non fece più parte del gioco. Così si limitò a dormire e a meditare.

Phipps aveva visto giusto, decise: viaggiare a quella velocità avrebbe cambiato tutto… gli uomini avrebbero compiuto dei balzi tra i pianeti, con la stessa disinvoltura con la quale ora si andava da un continente all’altro della Terra. Sarebbe stato come… be’, come il cambiamento dalle navi a vela ai razzi transoceanici, solo il cambiamento sarebbe avvenuto dal tramonto all’alba, invece che svilupparsi ordinatamente, e gradualmente, attraverso tre secoli.

Forse lui sarebbe ritornato sulla Terra, un giorno; la Terra aveva delle cose buone da offrire… per esempio, la possibilità di andare a cavallo. Si chiese, ancora una volta, se Sonno lo ricordasse ancora. Era uno dei ricordi più cari della sua adolescenza; non riusciva a dimenticarlo.

Gli sarebbe piaciuto insegnare a Isobel ad andare a cavallo. Gli sarebbe piaciuto vedere la sua faccia, nel momento in cui le avrebbe mostrato per la prima volta un cavallo!

Di una cosa era certo: lui non sarebbe rimasto sulla Terra, anche se fosse ritornato laggiù per qualche tempo. E non sarebbe rimasto neppure su Venere… e neppure su Marte. Sì, lui aveva degli amici come Sir Isaac, su Venere, che avrebbe rivisto sempre con piacere… e aveva i suoi genitori su Marte. Ma ora sapeva quale fosse la sua patria, il luogo nel quale lui poteva e doveva vivere… nello spazio cosmico, dove lui era nato. Qualsiasi pianeta era per lui semplicemente un albergo, una stazione di passaggio, un luogo di vacanza; ma lo spazio, lo spazio era la sua patria.

Forse lui sarebbe partito a bordo del Cercatore di Orizzonti, avrebbe partecipato al primo tuffo degli uomini nel grande nulla, verso le stelle. Aveva il presentimento che, se fossero usciti vivi da quell’impresa, un membro dell’equipaggio originale del Little David sarebbe stato favorito, nella scelta dell’equipaggio di partenza del Lungo Viaggio. Naturalmente, il Cercatore di Orizzonti era limitato alle coppie sposate, ma quello non era certo un ostacolo. Era sicuro di potersi sposare in tempo per essere prescelto, anche se non sapeva con precisione in quale momento aveva acquistato quella certezza. E Isobel era proprio la ragazza che poteva seguire il marito ‘nella buona e nella cattiva sorte’; non l’avrebbe trattenuto su un pianeta. In ogni caso, il Cercatore di Orizzonti non sarebbe partito subito; avrebbero aspettato di cambiare il sistema di propulsione, passando al motore Horst-Milne-Conrad, una volta che la conoscenza si fosse diffusa nel sistema solare. Un viaggio di secoli attraverso la lunga notte dello spazio interstellare, un viaggio di molte generazioni… come sarebbe stato? La prospettiva era affascinante. Certo, lui non avrebbe visto i nuovi mondi e le nuove stelle… sarebbero trascorse lunghe generazioni a bordo della prima nave interstellare, un mondo a sé stante lanciato nell’universo, ma ne sarebbe valsa la pena… ne era sicuro.

In ogni caso, lui intendeva muoversi un poco, viaggiare un poco, una volta terminata quella guerra. Certamente sarebbero stati costretti a trasferirlo nell’Alta Guardia, al suo ritorno, e poi l’esperienza nell’Alta Guardia lo avrebbe facilitato sotto tutti i punti di vista, al momento di venire congedato come veterano. Non avrebbe avuto nulla da temere, allora, per il suo futuro. A pensarci bene, forse lui doveva già fare parte dell’Alta Guardia, tecnicamente.

McMasters aveva avuto ragione, certamente… c’era una sola strada per ritornare su Marte… fare parte di una squadra d’attacco in missione speciale.

Si guardò intorno. L’inevitabile partita a carte era sempre in corso, e due dei suoi compagni stavano giocando a dadi in fondo al locale; i cubi giravano pigramente nella ridottissima gravità. Conrad aveva calato la sua branda, e stava dormendo placidamente, a bocca aperta. Don decise che la loro non aveva certamente l’aspetto di una compagnia d’assalto che andava a salvare un pianeta; il locale aveva piuttosto l’aspetto di un letto in disordine.

Avrebbero dovuto ‘uscire’ dal loro spazio privato nel corso dell’undicesimo giorno, a distanza di discesa da Marte, e… se tutte le supposizioni erano state esatte… nelle vicinanze della squadra d’attacco della Federazione; sarebbe stato quasi un arrivo in fotofinish, con gli incrociatori della Terra. Le lezioni di ‘scienza dei trabiccoli’ furono sostituite da una serie di esercitazioni ai posti di combattimento. Rhodes scelse Art Frankel, che aveva avuto già qualche esperienza spaziale, come co-pilota; Conrad fu assistito da Franklyn Chiang, un altro fisico. Degli altri quattro, due si occupavano della radio, e due del radar. Il posto di combattimento di Don era una specie di sella al centro del traghetto, dietro i sedili di pilotaggio… il ‘posto del morto’. In quella posizione, egli presidiava un pulsante di autodistruzione a molla, un tipo di pulsante noto, attraverso i secoli, come il pulsante del ‘morto’, per il motivo che funzionava solo se l’operatore era morto.