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Philip José Farmer

I cavalieri del salario purpureo

ovvero

La grande abbuffata

Se Jules Verne avesse visto davvero il futuro, metti il 1966, se la sarebbe fatta sotto. E il 2166, poveri noi!

dal manoscritto inedito di Nonno Winnegan, Come ho fottuto lo Zio Sam e altre eiaculazioni private

IL GALLO CHE CANTAVA AL CONTRARIO

In- e Sub-, i due giganti, lo macinano per fare il pane. I primi frammenti già salgono alla superficie, nel vino del sonno. Con orme immani, spremono le uve del profondo per officiare il loro sacramento: l’incubo.

E lui, come Simone il Semplice, pesca nella propria anima, si fa secchio da leviatani.

Geme, quasi si sveglia, si rigira, suda un mare di tenebra, rigeme. E più si agita, più In- e Sub- ci danno dentro, a girare le macine del mulino e a ripetere Fi, fa, fo, fum come l’orco che filava in oro la paglia. I loro occhi hanno un bagliore rosso come quelli di un gatto nel sacco, i loro denti serrati sono gli opachi numeri bianchi di un’aritmetica del caos.

In-conscio e Sub-conscio, anch’essi dei Simoni Semplici, rimescolano metafore, senza pudori.

Il mucchio di letame ha finito di covare l’uovo di gallo: ora ne esce il basilisco, e canta una prima volta (imminenti le prossime due, restare sintonizzati) nel pigia-pigia aurorale del sangue che celebra l’“Io sono l’erezione e la spinta”.

Poi continua a crescere, finché peso e lunghezza non finiscono per piegarlo come un salice non ancora piangente, come una canna ma-non-mi-spezzo. Con il suo unico occhio, la rossa testa spia oltre il bordo del letto. Appoggia per un poco la mascella priva di mento, ma poi, giacché il corpo, da dietro, si gonfia ancora e spinge, scende giù. Guarda monocolarmente da questa parte e da quella, dà un’antiquata annusatina a qualche piastrella, e serpeggia lesto alla tapparella, rimasta aperta per un lapsus linguae della sentinella, che ha marcato visita.

Un raglio assordante, dal centro della stanza, lo fa voltare indietro. È l’asino a tre gambe, il cavalletto di Mammona, che regge la “tela”: un contenitore ovale, poco profondo, di plastica irradiata e poi lavorata in modo speciale. La tela è alta due metri e spessa quaranta centimetri. Vi è dipinta una scena che entro l’indomani deve essere terminata.

È tanto una scultura quanto un dipinto, le figure sono in rilievo, tondeggianti, talune più propinque al bordo, talaltre al fondo. Riflettono la luce che proviene dall’esterno, ma ardono anche internamente, perché la plastica stessa della “tela” è luminosa. La luce pare penetrare nelle figure, inzupparle per qualche istante, e poi uscirne di nuovo. La luce ha una tinta debolmente rosata: è il medesimo rosso dell’aurora, del sangue allungato con le lacrime, dell’ira, dell’inchiostro con cui si scrivono i debiti sul registro.

Questa è un’opera della sua serie dei Cani: Canoni di un Cane, L’acCANito duello, Il CANto della CANicola, Andare a CAN-estro, Rose canine, Accalappiacani, Dietro quel palazzo c’è un povero cane pazzo, Il cane alla finestra d’Occidente e Paulo majora CANamus.

Socrate, Ben Johnson, Cellini, Swedenborg, Li Po e Hiawatha sono andati a fare casino nella taverna La Sirenetta. Dalla finestra si vede Dedalo che, sul più alto bastione di Cnosso, caccia un booster su per il culo di suo figlio Icaro per dargli un decollo razzo-assistito, nel suo famoso volo. In un angolo sta accovacciato Og, Figlio del Fuoco. Rosicchia un osso di tigre dai denti a sciabola e disegna bisonti e mammuth sull’intonaco ammuffito. La cameriera, Atena, curva sulla tavola, serve tarallucci e nettare ai suoi illustri avventori. Aristotele, con corna di caprone, le sta appiccicato alle terga. Le ha tirato su la gonna e la inforca more pecorarum. Le ceneri della sigaretta che gli penzola dalle labbra atteggiate a una piega amara sono però cadute sulla gonna di lei, che ora comincia a fumare. Sulla porta della toilette maschile, un Batman ubriaco ha ceduto alla tentazione a lungo repressa e cerca di farsi il Ragazzo Meraviglia. Da un’altra finestra si vede un lago, sulla cui superficie cammina un uomo, la testa cinta da un’aureola già un po’ verdolina per la corrosione. Dietro di lui, un periscopio spunta dall’acqua.

Il serpente pene è prensile: si annoda attorno al pennello e comincia a dipingere. Il pennello è un piccolo cilindro, fissato a un tubo che esce da una macchina di forma sferica. Sulla punta c’è un beccuccio, la cui apertura si regola girando una ghiera che sta sul cilindro. Il colore depositato sulla tela, che può andare da uno spruzzo finissimo a un rivolo denso, e che può assumere qualunque tinta o sfumatura si desideri, è regolato da altre rotelle.

Furiosamente, muovendosi come una proboscide, il penepennello costruisce un’altra figura, strato per strato. Poi, fiutato un certo odore di muschio, molla il lavoro e scivola fuori della porta, giù per la curva del muro, in quella stanza che è un ovoide puro, e nel suo passaggio descrive la traccia di tutti gli esseri senza zampe, parole sulla sabbia che tutti leggere sanno, ma che pochi poi capiranno. Il sangue pompa con lo stesso ritmo delle macine di In- e Sub-, per nutrire e gonfiare il rettile dal sangue bollente. Ma le pareti, che hanno percepito la massa dell’intruso e l’estrusione del desiderio, avvampano ma restano chiuse.

Lui geme, e il cobra ghiandolare s’innalza e tentenna al suono flautato del suo desiderio di infilarsi in un nas-CONNO-diglio. Non sia fatta la luce! La notte deve essere il suo lussur-sbergo. Passa in fretta davanti alla stanza della madre, quella più vicina all’uscita. Ah! Sospira sommessamente di sollievo, ma lo tradisce il filo d’aria che sibila attraverso la stretta bocca verticale, il fischio che annuncia la partenza dell’ex-soppresso per Desideratum.

La porta è invecchiata tutta d’un colpo: ora ha il buco della serratura. Presto! Sali sulla rampa ed esci dalla casa attraverso la toppa, arriva fin sulla strada. Un solo passante si vede, che cammina sul marciapiede: una giovane donna con i capelli d’argento fosforescente e accessori in tinta corrispondente.

Sempre avanti, lungo la strada brulla, ad avvolgersi alla caviglia della fanciulla. Lei abbassa lo sguardo, prima sorpresa e poi impaurita. Né a lui dispiace la cosa: lo raffredda sempre, la troppo vogliosa. Ha trovato la perla nella spazzatura.

Adesso su, e si avvolge attorno alla gamba, morbida come l’orecchio di un gattino, fino a scivolare sul poggio dell’inguine. Si strofina contro i teneri peli a ricciolo e poi, Tantalo di se stesso, compie una deviazione su per la lieve convessità del ventre, dice ciao all’ombelico, lo preme perché suoni il campanello ai piani superiori, fa un paio di giri attorno alla vita sottile e ruba timidamente un bacio a ciascun capezzolo. Poi di nuovo giù, a organizzare la spedizione che scalerà il monte di Venere per infilarvi la bandiera.

Orrore! Anatema sul godimento, e schifo sacrosanto! C’è un bambino là dentro, un ectoplasma che comincia a prender forma, pregustando ansiosamente la trasformazione che verrà. Scendi, ovulo, e precipita nel pozzo della carne, affrettati a inglobare il fortunato Micromoby Dick, che ha preceduto nella corsa i suoi milioni di fratelli, la sopravvivenza del più bellicoso.

Un forte gracidio riempie la sala. L’alito rovente agghiaccia la pelle. Lui suda. La fusoliera turgida si ricopre di ghiaccioli, e vacilla sotto il peso del ghiaccio, tutt’intorno ondeggiano spire di nebbia che fischiano tra i tiranti, alettoni e timone sono bloccati dal ghiaccio, e lui perde altitudine-attitudine rapidamente. Alzati, alzati! C’è il Venusberg da qualche parte, più avanti, perduto nella nebbia: tu, Tannhäuser, squilla la tromba, tromba la squillo, tirami un razzo, che sto precipitando in picchiata!