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La porta della stanza della madre è aperta. Un rospo acquattato riempie il varco ovoidale. La pappagorgia si alza e si abbassa come un mantice: la bocca sdentata si spalanca. Si spalanca. La lingua biforcuta sfreccia fuori e si attorciglia intorno al boa conno-strittore. Lui grida con entrambe le bocche e sussulta di qua e di là. Le ondate del rifiuto lo squassano. Due zampe palmate piegano e annodano il corpo sussultante… un nodo scorsoio, naturalmente.

La ragazza si allontana per la sua strada. No, aspettami! La marea ruggisce, si precipita sul nodo, arretra ruggendo, il flusso si scontra con il riflusso. È troppo, e c’è una sola direzione. Lui sussulta e zampilla, il cielo delle acque si squarcia, e non c’è arca di Noè o arco di ritenzione che lo fermi; lui entra in nova, scoppia in un’esplosione di milioni di meteore splendenti e frementi, di vampe sul tegame flambé dell’esistenza.

Se n’è venuto nel proprio regno. Ha l’inguine e il ventre incapsulati in un’armatura vischiosa, si sente freddo e umidiccio, e trema.

DIO HA PERSO L’ESCLUSIVA SULL’AURORA

«…e chi vi parla è il vostro Alfred Melophon Voxpopper, dell’Aurora Flessioni Ginniche Caffè, Un’Ora per Voi, Canale 69B. Versi registrati durante la 50a Dimostrazione e Competizione Annuale del Centro delle Arti Popolari, Beverly Hills, livello 14. Recitati da Omar Bacchylides Runic, del tutto a braccio, se escludete qualche pensierino preparatorio la sera prima, nella taverna privata The Private Universe, e potete escluderlo, perché Runic non ricorda un cazzo di quella sera. Anche se in quella serata ha vinto la Prima Corona d’Alloro A e naturalmente non c’erano corone seconde, terze eccetera dall’A alla Z, Dio salvi la nostra democrazia.»

Un salmone grigio-rosa risale le cascate della notte, Per deporre l’uovo del nuovo giorno.
L’alba è il rosso ruggito del toro di Mitra Che corre alla carica dall’orizzonte.
È il sangue fotonico della notte sanguinante, Pugnalata alle spalle dal sole assassino.

E così via, per cinquanta versi interrotti e spezzettati da acclamazioni, battimani, fischi, boati e gridi strazianti.

Chìb è quasi sveglio. Occhieggia nel buio che già si sfarina, mentre il sogno si allontana rombando nella galleria metropolitana del subconscio. Studia con le palpebre socchiuse l’altra realtà: quella cosciente.

— Libera il mio uccello! — geme, parodiando Mosè e da questi, che gli fa venire in mente le barbe lunghe e le corna (fornite dalla premiata ditta Michelangelo), il pensiero gli corre al bis-bisnonno.

Con un atto di volontà simile a un grimaldello, apre a viva forza le palpebre. Per primo scorge il fideo, che copre l’intera parete di fronte a lui e che, con la sua superficie concava, arriva fino a metà del soffitto. Sullo schermo, già l’alba, paladina del sole, ha lanciato il suo grigio guanto di sfida.

È il Canale 69B, IL VOSTRO CANALE PREFERITO, il canale di Los Angeles, a portare l’aurora. (Un inganno dentro l’inganno. Invece della “falsa aurora” naturale, è il suo simulacro, copiato da elettroni creati da congegni creati dall’uomo.)

Destati col sole nel cuore e un canto sulle labbra! Fremi ai versi stimolanti di Omar Runic! Goditi l’aurora come la vedono gli uccelli sugli alberi, come la vede Dio!

Voxpopper cantilena sommessamente i versi mentre si leva in un crescendo, dietro di lui, la Danza di Anitra di Grieg. Il vecchio norvegese non si era mai sognato di avere un simile pubblico, e forse gli è andata bene. Trattasi infatti di Chibiabos Elgreco Winnegan, un giovanotto con ancora il lucignolo lacrimoso a causa di un recente zampillo fuoriuscito dai pozzi petroliferi dell’inconscio.

— Alza le chiappe e monta in sella — mormora Chib. — Oggi corri su Pegaso.

Lui parla sempre, pensa, vive nell’immediato presente.

Chib scende dal letto e lo spinge dentro la parete. Lasciar sporgere il letto, stazzonato come la lingua d’un vecchio ubriacone, sarebbe un’offesa per l’estetica della sua stanza, distruggerebbe la curva della parete, che è lo specchio dell’equazione fondamentale dell’universo, e inoltre non gli permetterebbe di lavorare.

La stanza è un enorme ovoide e in un angolo c’è un ovoide più piccolo, il bagno con doccia. Quando ne viene fuori, Chib è pari a uno dei divini Achei di Omero, muscolose le cosce, membrute le braccia, la pelle di un bruno dorato, glaucopide il ciglio, rosso il crine… manca solo la barba. Poi, il telefono “squilla”, ossia emette il richiamo di una raganella arboricola sudamericana che Chib ha sentito una volta sul Canale 122.

— Apriti, Sesamo.

INTER CAECOS REGNAT LUSCUS

Al comando di Chib, la faccia di Rex Luscus compare, immensa, sullo schermo del fideo. I pori della pelle sono grandi come i crateri delle bombe su un campo di battaglia della Prima guerra mondiale. Porta un monocolo nero sull’occhio sinistro, che gli è stato cavato netto durante una rissa tra critici d’arte, nel corso del programma Io amo Rembrandt, Canale 109. Sebbene sia abbastanza influente da assicurarsi la precedenza e farsi trapiantare l’occhio in qualsiasi momento, ha rifiutato.

— Inter caecos regnat luscus — spiega, quando gli chiedono il motivo, e spesso anche quando non glielo chiedono. E aggiunge: — Traduzione per chi non avesse seguito studi classici: “Tra i ciechi, l’uomo con un occhio solo è re”. È per questo che ho preso il nome di Rex Luscus, cioè Re Monocolo.

C’è una voce, messa in giro dallo stesso Luscus, secondo la quale permetterà ai bio-addetti di mettergli un occhio di proteina artificiale quando avrà visto le opere di un artista abbastanza grande da meritare una visione bifocale. E si dice inoltre che forse lo farà presto, adesso che ha scoperto Chibiabos Elgreco Winnegan.

Luscus spia golosamente (lui usa gli avverbi anche quando bestemmia) la villosità e parti confinanti di Chib. Lui si gonfia, non per tumescenza ma per rabbia.

Luscus dice, accattivante: — Caro, volevo solo assicurarmi che tu fossi alzato e pensassi già alla cosa tremendamente importante di quest’oggi. Devi essere pronto per la mostra, devi! Ma adesso che ti guardo, mi viene in mente che non ho ancora mangiato. Che ne diresti di far colazione con me?

— Cosa mangiamo? — chiede Chib. Non aspetta la risposta. — No. Ho troppo da fare, oggi. Chiuditi, Sesamo!

La faccia di Rex Luscus svanisce; è caprina, o come preferisce dire lui, è la faccia di un Pan, di un Fauno delle arti. Si è addirittura fatto fare le orecchie a punta dal chirurgo. Una cosa fichissima.

— Bee-ee-ee! — Chib rifà il verso al fantasma. — Bah! Imbroglione! Non ti leccherò mai il culo, Luscus, e non ti permetterò di leccare il mio! A costo di perdere la borsa di studio!

Il telefono suona di nuovo. Questa volta appare la faccia scura di Rousseau Falco Rosso. Ha il naso aquilino, e i suoi occhi brillano come due schegge di vetro nero. Sull’ampia fronte porta una fascia di stoffa rossa, che trattiene i lisci capelli neri che gli scendono con leggiadria sulle spalle. Ha una camicia di pelle di daino; al collo porta una collana di perline. Assomiglia a un indiano delle grandi pianure, anche se Toro Seduto, Cavallo Pazzo o qualsiasi altro nobile Naso Aquilino di loro l’avrebbero cacciato fuori dalla tribù a pedate. Non per antisemitismo, naturalmente, ma solo perché non avrebbero mai digerito un guerriero che si copriva di orticaria quando vedeva un cavallo.

Faceva per nascita Julius Applebaum, ma è diventato di fronte alla legge Rousseau Falco Rosso il giorno della scelta del nome. È testé tornato dalla foresta riprimitivizzata, e per un po’ se la gode tra gli aborriti piaceri di una civiltà decadente.