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Apriti, Sesamo!

CANTO L’ALI GLORIOSE E IL CAPITANO

Il Nonno scrive, nelle sue Eiaculazioni private:

Venticinque anni dopo essere fuggito con venti miliardi di dollari e dopo essere passato per morto di infarto, ho di nuovo sulle mie tracce Falco Accipiter. L’investigatore dell’UID che si faceva chiamare Falco Falcone all’inizio della carriera. Quant’è pieno di sé! Eppure, è acuto e implacabile come un vero rapace, e io tremerei se non fossi troppo vecchio per lasciarmi impressionare dai comuni esseri umani. Chi gli ha tolto i geti e il cappuccio per scagliarmelo addosso? Come ha fatto a ritrovare la mia usta, vecchia e ormai fredda?

Accipiter ha la testa di un sospettosissimo falcone pellegrino che si sforza di guardare dappertutto mentre volteggia, e va a sbirciare perfino nel proprio ano per assicurarsi che un’anitra non si sia rifugiata laggiù. Con i suoi occhi azzurri lancia occhiate che sono come coltelli fulmineamente estratti dalla manica e scagliati con un solo guizzo del polso. Scrutano tutto, per assorbire sherlockholmesianamente gli elementi più minuti e significativi. Gira la testa avanti e indietro, con le orecchie che fremono, le froge che si dilatano e si afflosciano, tutto radar e sonar e odar.

— Signor Winnegan, mi dispiace di averla chiamata così presto. L’ho tirata giù dal letto?

— Cazzo che no! — dice Chib. — Non si prenda il disturbo di presentarsi, la conosco. Mi pedina da tre giorni.

Accipiter non arrossisce: non arrossisce mai. Con una perfetta padronanza di sé, forse arrossisce solo nell’intimo delle proprie viscere, dove nessuno vede. — Se mi conosce, allora sa perché l’ho chiamata.

— E mi crede così stronzo da dirglielo?

— Signor Winnegan, vorrei parlarle del suo trisavolo.

— È morto da venticinque anni! — esclama Chib. — Lo lasci perdere. E non scocci me. Non cerchi di procurarsi un mandato di perquisizione. Nessun giudice glielo firmerebbe. La casa di un uomo è il suo casino… voglio dire castello.

Pensa a Mamma e a come finirà la giornata, se lui non uscirà presto. Ma deve terminare il quadro.

— Sparisca, Accipiter — dice. — Credo che la denuncerò all’Ufficio per la tutela dei diritti umani. Sono sicuro che ha un fideo nascosto in quel ridicolo cappello.

Il volto di Accipiter è levigato e immoto come un’immagine del dio-falco Horus, scolpita nell’alabastro. Magari sta per mollare un po’ di gas che gli gonfia l’intestino; in tal caso, però, non lo fa notare.

— Benissimo, signor Winnegan. Ma non si libererà di me tanto facilmente. Dopotutto…

— Fuori dai piedi!

Il citofono fischia tre volte. E tre volte significa che è il Nonno. — Stavo origliando — dice la voce del centoventenario, cavernosa e profonda come l’eco della tomba d’un faraone. — Voglio vederti, prima che tu esca. Cioè, se puoi concedere qualche minuto a un vecchio scemo.

— Sempre a tua disposizione, Nonno — dice Chib, con un pensiero affettuoso per il vecchio. — Hai bisogno di qualcosa da mangiare?

— Sì, e anche di pane per la mente.

Der Tag. Dies Irae. Gotterdammerung. Il Giorno del Giudizio. Armageddon. Oggi, tutto sta per decidersi. Il giorno dell’“o la va o la spacca”, del sì o del no.

Tutte quelle chiamate e il presentimento che ce ne saranno altre. Che cosa porterà questa giornata?

UNA CARAMELLINA DI SOLE PER LENIRE LA GOLA DOLORANTE DELLA NOTTE

Omar Runic

Chib si dirige verso la porta convessa, che al suo avvicinarsi rientra nell’interstizio tra le pareti. Il cuore della casa è la stanza ovale di soggiorno. Nel primo quarto, procedendo in senso orario, c’è la cucina, e tra essa e il soggiorno c’è un paravento a fisarmonica alto sei metri, che Chib ha dipinto con scene tratte da tombe egizie, per alludere in modo forse troppo sottile al cibo moderno. Sette esili colonne, intorno al soggiorno, segnano i confini tra stanza e corridoio. Tra le colonne ci sono altri schermi a fisarmonica, dipinti da Chib durante il suo periodo della mitologia amerinda.

Anche il corridoio è ovale; ogni locale della casa si apre su di esso. Vi sono sette stanze: sei sono combinazioni camera da letto, stanza da lavoro, studio e toilette-doccia. La settima è un ripostiglio.

Sono piccole uova dentro uova più grandi che stanno dentro uova ancor più grandi, che stanno dentro un megamonolito costruito su pianeta a pera contenuto in un universo ovoidale, giacché la cosmologia più recente sostiene che l’infinito ha la forma del prodotto della gallina. Dio cova sull’abisso e lancia un coccodè ogni trilione d’anni, giorno più giorno meno.

Chib attraversa il corridoio, passa in mezzo a due colonne, da lui scolpite in forma di cariatidi ninfette, ed entra nel soggiorno. La madre sbircia di traverso il figlio, che secondo lei si sta avvicinando rapidamente alla pazzia, se già non l’ha raggiunta. In parte è colpa sua, si accusa; non avrebbe dovuto stancarsi e in un momento di capriccio dire basta. Adesso è grassa e brutta, oddio, quant’è grassa e brutta. Non può pensare di ricominciare, ragionevolmente (né irragionevolmente).

È del tutto naturale, continua a dirsi, sospirando, risentita, lacrimosa, che lui abbia abbandonato l’amore della madre per le delizie forestiere, sode e ben tornite, delle donne giovani. Ma rinunciare anche a quelle? Lui non è un finocchio. Eppure, ha piantato tutto fin da quando aveva tredici anni. Dunque, qual è la ragione della sua castità? Non fa neppure l’amore col fornixatore, cosa che lei potrebbe capire, anche se non l’approverebbe.

Oh, Dio, in cosa ho sbagliato? E poi, non sono stata io a sbagliare. Sta per diventare pazzo come suo padre (Raleigh Rinascimento, mi pare si chiamasse così), sua zia e il suo trisavolo. È colpa di tutto quel dipingere e dei suoi amici estremisti radicali, i Giovani Radicchi, che frequenta. È troppo artista, troppo sensibile. Oh, Dio, fa’ che non succeda niente al mio bambino, altrimenti dovrò andare in Egitto.

Chib conosce i pensieri di sua madre, perché lei li ha espressi tante volte e non è capace di averne di nuovi. Passa davanti alla tavola rotonda senza dire una parola. I cavalieri e le dame della Camelot in compresse lo guardano attraverso un velo di birra.

In cucina, lui apre uno sportello ovale. Tira fuori un vassoio con il cibo dentro piatti e tazze coperte, tutto avvolto nella plastica.

— Non mangi con noi?

— Non rompere, Mamma — dice lui, e torna in camera sua a prendere qualche sigaro per il Nonno. La porta, che percepisce e amplifica l’immagine mutevole ma riconoscibile dei campi elettrici epidermici e la trasmette al meccanismo attivatore, indugia. Chib è troppo sconvolto. Un maelstrom magnetico infuria sulla sua pelle e distorce le configurazioni dello spettro. La porta si apre per metà, si richiude, cambia di nuovo idea, si ritrae, si richiude.

Chib prende a calci la porta, che, come conseguenza, si blocca completamente. Si ripromette di farci mettere un sesamo video o audio, ma il guaio è che si trova a corto di buoni e di tagliandi e non può comprare il materiale necessario. Si stringe nelle spalle e procede lungo il corridoio curvilineo monoparete e si ferma davanti alla porta del Nonno, invisibile dal soggiorno a causa della presenza dei paraventi della cucina.

Poiché cantava di pace e libertà, Di bellezza, di nostalgia, d’amore; E della morte, e dell’immortalità, Nelle Isole dei Beati, Nel regno di Ponemah, Della terra dell’Aldilà, Era il mite Chibiabos Molto caro a Hiawatha.

Chib canticchia le parole di riconoscimento; la porta si apre.