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John Christopher

I possessori

PRELUDIO

I Possessori avevano una lunga memoria, ma non abbastanza da abbracciare le loro origini. In una certa epoca, a quanto pareva probabile, avevano avuto un’esistenza indipendente, ma da ere geologiche ormai innumerevoli la loro vita era legata a quelle che, per loro, erano le vite evanescenti dei Posseduti. Senza questi, essi non potevano né agire né pensare: ma per loro tramite erano i padroni di quel mondo freddo. Erigevano città sopra ai ghiacci, correvano su strani apparecchi a vela sopra gli immani deserti innevati, e vincevano i gelidi cieli nuvolosi. Facevano tutto questo vivendo nei corpi dei Posseduti: e nello stesso tempo erano uniti a essi e distaccati dalla loro bruta rozzezza. Non disprezzavano gli ospiti, che erano i loro schiavi: in un certo senso, e nella misura in cui il termine aveva un significato nella loro esperienza, vi erano anzi affezionati. Quando venne la catastrofe, li avrebbero salvati, se ne avessero avuto la possibilità.

Sarebbe anche stato possibile, se vi fosse stato un preavviso più lungo. Già i loro razzi avevano raggiunto le due lune del pianeta, e si erano diretti verso gli altri tre mondi che costituivano la famiglia di quel sole. Un secolo sarebbe stato sufficiente, e persino cinquant’anni. Ma i fatti erano chiari, l’estrapolazione evidente. Entro un periodo di tempo inferiore ai dieci anni, il loro sole sarebbe esploso trasformandosi in nova, sarebbe aumentato di dimensioni fino a quando anche l’orbita del pianeta si sarebbe trovata all’interno della sua fiamma e della sua furia. Non esisteva un modo di salvare i Posseduti dal loro destino.

Per loro, invece, una possibilità c’era: o meglio, c’era per le spore che erano i loro figli. Una probabilità minima, ma era pur sempre una probabilità. Le arche metalliche furono costruite dalle mani abili e pazienti dei Posseduti, furono poste sulle rampe di lancio, preparate e sistemate. E a tempo debito Possessori e Posseduti guardarono le fiamme che erompevano dagli ugelli delle arche, sollevandole, lanciandole con forza nei pallidi cieli ventosi. La temperatura era già aumentata, e il calore del sole incominciava già a sciogliere la crosta di ghiaccio del pianeta. I Possessori sapevano che la fine non era lontana.

Ma le spore, nei loro bozzoli d’acciaio, erano per il momento al sicuro nelle fredde profondità dello spazio. In maggioranza avrebbero finito per perire. Forse anche tutte. Ma forse, alcune sarebbero sopravvissute. In qualche parte dell’universo, in un futuro inimmaginabile, su qualche mondo inconcepibilmente lontano, i Possessori forse avrebbero ripreso a vivere.

Non c’era né tempo, né distanza, né facoltà di sentire: solo la vita, in animazione sospesa. E quando, con il passare dei millenni, il loro fato li raggiungeva, non si accorgevano di morire. Era quasi sempre la stessa sorte: la caduta attraverso la rete di un nuovo sistema solare, sempre più rapida, sempre più rapida, fino a quando l’astronave, già semifusa, precipitava nel sole. Questa fine, come i Possessori avevano sempre saputo, era quella che si presentava come la più probabile.

Ma le astronavi erano state lanciate a centinaia, e c’era una possibilità che alcune potessero avere un destino migliore. Tre lo ebbero. Tre vennero catturate dai campi gravitazionali più deboli di pianeti, e precipitarono nell’atmosfera, non nelle fiamme. E quando questo avvenne, i comandi automatici funzionarono come avevano predisposto ì Possessori. Molto tempo prima che il metallo della capsula incominciasse ad arroventarsi per l’attrito dell’atmosfera, le spore vennero espulse, e scesero verso il suolo, fluttuando come bollicine.

Uno era un mondo d’acqua, un altro di ardenti, soffocanti deserti. Le spore sopravvissero un po’ più a lungo sul primo pianeta che sul secondo, ma in entrambi i casi non molto a lungo. Il terzo mondo era meno omogeneo degli altri due.

Le spore scesero, attraverso l’atmosfera sempre più densa, verso luoghi diversi. Alcune finirono nell’acqua, altre nel caldo del deserto. Caddero nella giungla e nei prati, tra le rocce e su fertili pascoli. I risultati furono identici. Una cadde sulla fronte di un bambino bruno e nudo, che stava accovacciato e giocava con un primitivo balocco di legno. Il bambino guardò, protese la mano, la ritirò piagnucolando quando la bolla, davanti ai suoi occhi, scoppiò e si dissolse nel nulla. Qualche ora dopo, era sopravvissuta un’unica spora.

Stava là dov’era caduta, in un crepaccio sul fianco di una montagna. Tutto intorno c’era neve, e altra neve cadeva dal cielo color acciaio. Con il passare del tempo, la neve seppellì la spora, che restò lì, protetta, insensibile ma viva, per tutto l’inverno.

La primavera e l’estate portarono il disgelo. Ghiaccio e neve si sciolsero, fluirono in rivoletti lucenti giù per il fianco della montagna. Ma non tutta la neve si sciolse. I ghiacciai avanzavano di nuovo, lentamente, appena percettibilmente, spostandosi in un’altra fase della loro eterna danza. Gli inverni erano un poco più freddi, le estati un poco meno calde. Anno dopo anno, la neve si ammucchiò più spessa e più pesante sulla spora sepolta. La pressione non la danneggiava. Giaceva nella sua fredda prigione protettiva, insensìbile, e attendeva.

E con il tempo, i ghiacciai si ritirarono di nuovo. La coltre di neve si assottigliò, decennio per decennio. C’erano tensioni continue, gli spostamenti e il peso delle pressioni che un tempo si erano stabilizzate e che adesso erano di nuovo diseguali. Il ghiaccio si screpolò, la neve cominciò a scendere in slavine. Dopo i lunghi, lunghi anni di stasi, all’improvviso vi fu movimento.

PARTE PRIMA

I.

C’erano due stazioni intermedie per arrivare a Nidenhaut, dove la ferrovia a cremagliera si arrestava in una stazione coperta, festonata di ghiaccioli. Avevano superato la linea delle nevi poche centinaia di metri dopo la seconda fermata: in mezz’ora erano saliti di seicento metri dal fondovalle, che a sua volta si trovava a trecento metri dal livello del mare. Douglas Poole trascinò la valigia sulla piattaforma, la portò oltre la barriera. Il riflesso del sole sulla neve l’abbagliava. Stava battendo le palpebre e, in un primo momento, non riuscì a vedere bene la persona che gli aveva rivolto la parola.

«Mr. Poole, vero? George Hamilton.»

La voce aveva la brusca sicurezza dell’accento di un ex militare della RAF. Una mano era tesa verso di lui, e Douglas la prese. La stretta era salda. Quando i suoi occhi si abituarono alla luce, vide che anche l’aspetto dell’uomo era in armonia con la voce e con la stretta di mano: un uomo magro, dalle ossa robuste, con il viso un po’ gonfio e i baffi ispidi, neri e spruzzati di bianco. Indossava calzoni da sciatore, una giacca a vento con cappuccio e un berretto d’astrakhan nero piazzato energicamente sulla testa.

«Sì,» disse. «Sono Poole. Non mi aspettavo che venisse a prendermi, comunque. Non avevo detto con che treno sarei arrivato.»

«Quasi tutti quelli che prendono l’aereo del mattino per Ginevra arrivano con questo. Per la verità, non sono venuto proprio a prendere lei. A bordo c’è della roba per noi… carne e verdure. Ci vorrà un quarto d’ora per scaricarla. Le va di prendere qualcosa, mentre aspettiamo?»

Douglas esitò un momento. Quando aveva guardato l’orologio, e il treno si stava fermando nella stazione, mancavano dieci minuti alle quattro. Dopotutto, pensò, era in vacanza.

«Benissimo,» disse.

Hamilton lo guidò, oltre un minibus Volkswagen con le catene alle ruote e uno spartineve ammaccato, verso il Buffet de la Gare. Douglas diede un’occhiata a Nidenhaut: un’unica strada fiancheggiata da edifici di legno, negozi, un paio d’alberghi. Il pendio della montagna continuava a salire, oltre il paesetto, fino ad una vetta nitida e bianca contro lo sfondo azzurro del cielo. Salirono alcuni gradini, e svoltarono a destra su di una terrazza piena di tavolini e di sedie: i tavolini erano sovrastati da ombrelloni con la pubblicità del Campari e della Pepsi Cola. La terrazza era affacciata sopra la ferrovia, e guardava i picchi meridionali, dall’altra parte della valle. Douglas riconobbe la cresta seghettata del Dent du Midi.