«Solo una discesa,» disse Elizabeth. «Poi lascerò che continuiate tu e Diana.»
«Sciocchezze,» disse Selby. «È la risalita che ti fa bene, la discesa non è gran che, come esercizio.»
Arrivarono al punto di partenza prestabilito, e si fermarono, ansimando. Erano a circa ottocento metri dallo chalet, verso ovest, ad una quota un po’ più elevata: in mezzo c’era la conca, ingombra di neve, ghiaccio e rocce, cadute con la valanga più piccola. Per fortuna, l’ingombro non arrivava fino alla loro linea di discesa.
I bambini Deeping, notò Selby, avevano tirato fuori di nuovo la slitta, e scendevano dalla parte più ripida del pendio, al di là della valanga. Andavano velocissimi: probabilmente non controllavano bene la slitta, ma almeno era improbabile che si facessero del male: lì la neve era alta. Quasi a conferma, vide la slitta sobbalzare e andarsi a seppellire, insieme ai suoi passeggeri, in un mucchio di neve. I bambini ne uscirono subito, e le loro voci, eccitate e felici, volarono esili nell’aria fredda.
Elizabeth disse: «Loro sono quelli che si divertono di più.» Nella sua voce c’era una nota che si avvicinava alla tristezza, per quanto lo consentiva la sua placidità. «Andare in slitta è sempre stata la cosa più bella dell’inverno, per me.»
«Giusto,» disse Selby. «Quando avremo finito la discesa, andremo in slitta. Tireremo fuori quella grande. George ci darà una mano.»
«I bambini,» disse Diana. «Hanno trovato qualcosa?»
Il più piccolo, Andy, stava frugando nella neve. Voltava loro le spalle, e stava chino. Si rialzò e chiamò il fratello, che tirava lo slittino sul pendio. Poi tornò a chinarsi, e scivolò in avanti, lentamente, bocconi.
Stavano giocando, pensò Selby: ma c’era qualcosa d’inquietante nel modo in cui il bambino era caduto. Rimase immobile, indeciso, a guardare. Stephen scese accanto ad Andy, si piegò, lo sollevò e lo girò. Poi si accosciò, con il fratello tra le braccia come un peso morto, e alzò la testa, come per cercare aiuto. Selby non perse altro tempo: piantò i bastoncini nella neve e scese verso di loro.
Una comune sincope, pensò, vedendo il volto bianco ed esanime, il corpo inerte. Troppo sforzo, subito dopo il pranzo, o forse lo choc ritardato per la caduta dalla slitta. Disse a Stephen:
«Bene. Dallo a me.»
«È svenuto,» disse Stephen.
«Sì. Fra poco rinverrà.»
Si era tolto i guanti e li aveva sfilati al bambino, e le sue dita cercarono automaticamente il polso. Rimase sconvolto, incredulo. Accostò la guancia alla bocca del bambino, infilò la mano sotto il maglione e la camicia per sentirgli il cuore. Lo stava tenendo così, sorreggendolo con l’altro braccio, quando in uno spolverio di neve Diana gli arrivò vicina, subito seguita da Elizabeth.
«Cosa c’è?» chiese Diana. «È successo qualcosa?»
«È svenuto,» ripeté Stephen. «È caduto e svenuto.»
Selby disse a Elizabeth: «Sganciami gli sci, per favore. Lo riporto in casa.»
Mantenne la voce su un tono neutro, ma dall’espressione di lei capì che aveva intuito trattarsi di qualcosa di grave. Lei gli sganciò gli sci rapidamente, con gesti esperti. Selby portò il ragazzo allo chalet, camminando sulla neve. Quelli che si trovavano sul pendio più sotto, a quanto pareva, non si erano accorti di niente, ma Mandy gli andò incontro sulla porta.
«Un incidente?» domandò.
«Non so.»
Mandy si fece da parte, e Selby portò il bambino in salotto. Lo depose sul tappeto, davanti al fuoco, gli tolse maglione e camicia. Massaggiò il torace ancora caldo, cercò di insufflare aria nei polmoni afflosciati. Ma sapeva che non c’era niente da fare, prima ancora di desistere. Alzò la testa. Accanto a lui c’erano Elizabeth e Diana.
Elizabeth disse: «Mandy ha condotto Stephen in cucina. Selby, è morto?»
Lui annuì, senza dir nulla.
«Ma come? Cos’è successo?»
«Arresto del cuore. Può darsi che lo avesse già debole.» Selby scosse il capo. «Ma non sembrava un cardiopatico.»
Diana disse, con voce atona: «Non posso crederlo.» Distolse lo sguardo dal corpo del bambino, andò alla finestra che dava sulla terrazza. «Stanno ancora sciando, laggiù,» disse. «Qualcuno dovrà avvertirli.»
«Andrò io,» disse Elizabeth. Si chinò e toccò il viso del bambino morto, come se, toccandolo, rendesse più credibile la realtà di quella morte. «Lo lasci qui?»
«Per il momento.»
Mentre attendeva che arrivassero i Deeping, Selby si sentiva stordito. Nei primi tempi, nel teatro anatomico, aveva incontrato moltissimi casi diversi di morte improvvisa. Ma era stato anni prima, e c’era sempre stato un preavviso, una spiegazione. Adesso fissava il corpo senza segni di malattia, e si sentiva pieno di stupore e di risentimento. Il suo lavoro consisteva nel rimediare alle imperfezioni dell’aspetto umano, nel conquistare piccole vittorie sull’indifferenza della natura, nel condurre una campagna tranquilla e misurata contro la bruttezza. E li c’era quel bambino, delicato, senza difetti, morto. L’indifferenza suprema, la bruttura finale. Di fronte ad essa, tutto ciò che lui aveva fatto o sperato di fare sembrava un’irrisione.
Fino a quando lei non parlò, aveva dimenticato che Diana era ancora lì. Lei disse:
«Crede che farei meglio ad andarmene… prima che arrivi lei?»
Selby la sentì appena. «Come crede.»
«Non sopporto le scene, e del resto, non posso rendermi utile.» Diana ebbe una piccola risata nervosa. «E sento il bisogno di fumare una sigaretta.»
«Sì,» disse lui. «Vada, allora.»
Elizabeth arrivò con i Deeping. Era sempre perfetta, in situazioni del genere: tranquilla, comprensiva, serena. Con discrezione ma con fermezza, cinse con un braccio le spalle di Ruth Deeping e la guidò attraverso il salotto.
Per qualche secondo nessuno parlò. Il silenzio era rotto solo dagli scoppiettii del fuoco, dal ticchettio del grosso, complicato orologio a cucù appeso alla parete. Ruth Deeping si era lasciata cadere in ginocchio accanto al figlio, gli aveva sollevato la testa, stringendola tra le braccia. Quando alzò gli occhi e parlò, la sua voce era ragionevole, controllata.
«Non è morto,» disse. «È solo svenuto.»
«Mi dispiace, ma…»
«È caldo!»
Un pezzo di legno sibilò, nel fuoco, come per sottolineare l’inutilità di qualunque risposta. Gli occhi azzurri stavano diventando vitrei. Selby guardò Deeping. Lui l’aveva accettato, sicuro. La rassegnazione era espressa dalle spalle piegate, dalla contrazione mesta della bocca. Selby gli si avvicinò, disse sottovoce:
«Mi dispiace moltissimo. Nessuno avrebbe potuto far nulla. Era già morto quando l’ho trovato.»
Deeping girò la testa di scatto. «Come?»
«Il cuore. Ha… aveva dei disturbi?»
Deeping scosse la testa, lentamente. «Non ha mai avuto niente. Mai niente. Solo la varicella, il morbillo… le solite cose.» Fissò Selby, come chiedendogli una spiegazione. «Com’è successo? Lei deve averne un’idea.»
«Doveva trattarsi di un vizio cardiaco. Qualcosa che non risulta se non facendo un elettrocardiogramma. L’unico modo per scoprirlo sarebbe…» Esitò. «Sarebbe un’autopsia.»
Sebbene avesse parlato sottovoce, Ruth Deeping doveva aver udito le sue parole. Disse, con voce aspra:
«No. Niente da fare. È già abbastanza che sia morto. Non importa qual è stata la causa.»
Selby provò un senso di sollievo nell’accorgersi che aveva superato la prima, terribile crisi; ma si sarebbe sentito più tranquillo se lei avesse pianto. L’arida amarezza che mostrava quella donna lo rendeva inquieto. Si rivolse a Deeping.
«Forse è meglio che lei lo porti in camera sua. Ce la fa?»
«Ce la faccio.»
Ruth non fece obiezioni, quando Deeping sollevò il bambino tra le braccia e lo seguì in silenzio. Selby li sentì salire le scale, e ricordò che l’altro bambino era in cucina con Mandy. Sua madre avrebbe dovuto andare da lui, pensò. Sono i vivi che hanno delle esigenze. Andò in cucina, e trovò il bambino seduto davanti a un bicchiere di cordiale bollente. Mandy stava lavorando. La guardò con aria interrogativa, e lei scosse leggermente il capo. Selby si stupì un poco di quel gesto. Toccava ai genitori dargli la notizia, non a semplici conoscenti come loro.