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Lei chiuse gli occhi, rifiutando quell’immagine. Selby si rivolse a Deeping.

«George ha fatto portare su una barella. È fuori, sul ballatoio. La porti dentro: le darò una mano a scendere.»

Deeping obbedì. Mentre era fuori, Selby posò una mano sul braccio di Ruth. Lei tremava leggermente.

«Vada giù,» le disse. «George le darà un brandy.» Ruth scosse appena il capo, e lui insistette: «Glielo prescrivo. Le parlo ancora come medico. Poi George l’accompagnerà in cantina, e le farà vedere come si è organizzato.»

La donna rimase immobile per un momento. Poi si piegò e baciò il viso del bambino. Quindi uscì dalla stanza, in fretta: Selby sentì i suoi passi scendere le scale.

Peter, l’uomo di fatica, sostituì Selby per l’ultima rampa di scale: era più stretta e contorta e Peter, che scendeva per primo, doveva muoversi con attenzione. Selby li seguì nel locale che era già stato preparato. Era in fondo al corridoio. La porta era aperta, e lasciava filtrare un po’ di luce.

Dentro c’era George. Al centro della stanza c’era un vecchio tavolo, e un paio di grosse casse di legno, cui era stato asportato un lato, erano state messe insieme in modo da formare una specie di rozza bara scoperta. Selby la guardò, mentre gli altri due deponevano la barella. Il fondo e i lati erano stati rivestiti di ghiaccio. Guardò George e annuì in segno di approvazione. Poi Deeping sollevò dalla barella il corpo del figlio, lo distese nelle casse. Il bambino era stato rivestito di un pigiama, e a Selby parve terribilmente freddo e sperduto. Deeping stese il lenzuolo, lo tirò per coprire la faccia. Abbassò gli occhi, impotente, per un momento, poi disse:

«Ruth vuole vederlo, adesso. Vado a dirglielo.»

«Aspetterò qui,» disse Selby.

George attese con lui. L’aria era molto fredda, dopo il tepore del resto della casa, e il silenzio era rotto da un suono lontano, che Selby riconobbe: era il rombo della caldaia. Più che altro per spezzare il silenzio, disse:

«Il ghiaccio è stato una buona idea. Non ci avevo pensato.»

«Niente di speciale,» disse George. «Mio padre era macellaio.» Guardò la bara improvvisata, con occhi inespressivi. «No, non devo coltivare illusioni di grandezza. Era un garzone di macellaio. Anche se alla fine gli avevano affidato la gestione di un negozio. Morì l’anno dopo.»

«E lei quanti anni aveva?»

«Quattordici. E a quell’epoca c’era la recessione. Ebbi l’autorizzazione a lasciare la scuola e a impiegarmi come commesso. Dodici e sei alla settimana. Avrei potuto guadagnare un’altra mezza corona come garzone di macelleria, ma mia madre non ne volle sapere.»

«Deve essere stata molto dura.»

George alzò le spalle. «Cosi-così. La guerra cambiò tutto, naturalmente. Ebbi la fortuna di finire in aviazione e di qualificarmi come pilota. Quello fu il difficile: il resto andò liscio come l’olio.» Sogghignò. «Per usare una delle tante frasi fatte che ho imparato sotto le armi.»

«Assimilazione,» ammise Selby. «Pensa che questo l’abbia reso felice?»

Con bonario disprezzo, George disse: «Ecco: parla l’uomo per cui un garzone di macellaio era qualcosa con il grembiule bianco e blu che arrivava alla porta di servizio, schivando il cane e dando un pizzicotto alla sguattera. Forse la mia vita non le sembrerà un grande successo, amico, secondo i suoi criteri, ma per me lo è. Un benessere ragionevole, invece della miseria. E quando guardo dalla finestra vedo il Grammont e il lago di Ginevra, non l’altra parte di Crake Terrace con i cani rognosi che pisciano contro le staccionate. Tutte le primavere porto qui mia madre. Anche lei va pazza come me per queste montagne.»

Selby annuì. «Capisco.»

«Capisce davvero? Può darsi.» Si avvicinò alla tavola, e guardò il corpo del bambino. «Per quanto lo riguarda, non esistono più possibilità. Povero piccolo. Che peccato.»

Fuori si udirono dei passi, ed entrò Ruth Deeping, guidata dal marito. George si scostò quando lei si avvicinò al tavolo e si fermò. Il suo volto era sbiancato, immobile. George rivolse un cenno del capo a Selby, e uscirono insieme.

Il pomeriggio sfumò nella pesantezza della sera. C’era come un sudario, sopra la casa, particolarmente deprimente per un uomo vivace ed estroverso come Selby. La morte del bambino era stata un trauma, e capiva ciò che dovevano provare i Deeping, soprattutto Ruth: ma non gli sembrava una ragione sufficiente per giustificare la tetraggine generale. Dopotutto, non si poteva negare la verità psicologica che, anche se non si trattava d’una perdita personale, la morte di un altro, anche di un bambino, era la conferma della continuità della vita. Per questo c’era la tradizione della veglia, del banchetto funebre. Chiedi per chi suona la campana, e chiedi a chi la suona di farlo un po’ più allegramente.

Era impossibile, naturalmente, nell’ambito circoscritto di uno chalet circondato dalla neve e completamente isolato dal mondo. Non si poteva far altro che sopportare, con una smorfia. George aprì presto il bar, e Selby condusse Elizabeth e Diana a bere qualcosa. Jane Winchmore entrò più tardi, insieme a Douglas Poole. Sembrava che andassero d’accordo, notò Selby: a modo loro, in sordina. Era difficile immaginare lei che accettava un approccio più caloroso, o lui che lo tentava. Finalmente li raggiunse anche Deeping, dando inizio allo scambio opaco e depresso di banalità. Ruth Deeping, a quanto pareva, vegliava il bambino morto. Quello vivo, che sembrava non interessarla più, era affidato alle cure di Mandy e della cameriera.

Selby salì presto a fare il bagno e rimase a lungo nella vasca, malinconicamente, leggendo una copia del Ladies’ Home Journal che Elizabeth aveva comprato all’aeroporto di Londra. Si scosse solo quando lei bussò più volte alla porta e lo chiamò con voce misurata ma penetrante. Allora si vestì lentamente, cercando di far passare i minuti.

Ruth non si presentò per cena. George le aveva messo una sedia nella stanza in cantina, e lei aveva detto che voleva restare lì. Aveva bevuto il tè preparatole da Mandy, ma aveva dichiarato che non se la sentiva di mangiare nulla. Selby aveva un appetito furioso, e Mandy aveva fatto un eccellente pasticcio di carne, ma la tetraggine, le voci smorzate, diventavano progressivamente insopportabili. Per il bene di tutti e anche per il suo, per non parlare poi di quello di Selby in particolare, Ruth doveva togliersi di torno. Scese in cantina con passo fermo e animo deciso.

Lei era seduta con la testa appoggiata al fianco d’una delle casse, e non alzò gli occhi quando Selby entrò. La prese per un braccio con fermezza e disse:

«Adesso l’accompagno di sopra, Ruth. Deve sdraiarsi e riposare un po’.»

Lei continuò a non guardarlo. «No.»

«Insisto.» La fece alzare, a forza. «Può scendere di nuovo più tardi, se vuole.»

Lei non aveva opposto resistenza. Disse, con voce atona:

«Qualcuno deve stare con lui.»

«E qualcuno ci starà. Verrà giù Leonard.»

Gli occhi di Ruth erano enormi, in un volto disfatto che dimostrava quindici anni di più della sua età.

«Se viene lui, prima.» Scosse il capo. «Non voglio che resti solo.»

Selby annuì, e risalì per andare a prendere Deeping. Ruth non disse nulla al marito: si limitò a guardarlo mentre la sostituiva accanto alla bara. Poi si lasciò condurre di sopra da Selby. Non volle svestirsi; acconsentì soltanto a togliersi le scarpe e a stendersi sul letto. Il medico le fece portare dalla cameriera un ponce bollente e poi, dalla scorta di medicinali che portava sempre con sé, prese un mezzo grano di Nembutal. Ruth prese la capsula gialla con un’espressione allarmata.