Guardò la donna addormentata, cercando di pensare a qualcosa che l’aiutasse a far passare il tempo. Ma i bei ricordi, per il momento, erano stati scacciati da quelli brutti; e a questi ultimi lei non voleva arrendersi. Aveva dato un’occhiata all’orologio appena si era accorta che Ruth dormiva e, quando tornò a guardare, vide che erano trascorsi soltanto cinque minuti. Fu una constatazione deprimente. Aveva bisogno di qualcosa che la tirasse su… ne aveva bisogno veramente.
Con un sussulto di sorpresa e poi di piacere, si rese conto di un’altra cosa: non aveva ancora bevuto niente, quel giorno. Si era alzata in fretta e furia nel cuore della notte, quando Ruth aveva urlato in fondo alle scale, e da quel momento era stata troppo indaffarata per pensarci. E naturalmente ne era lieta. Dimostrava che, anche se era diventata un’abitudine, era un’abitudine cui si poteva rinunciare. Dalla finestra vedeva le vette montane, fulgide nel sole mattutino. Forse un po’ c’entravano le montagne. Le avevano sempre fatto un po’ paura, e nella stagione morta, quando stava molto tempo senza far niente, l’opprimevano più che mai. Era nella stagione morta che beveva sempre di più: quando c’erano ospiti nella pensione, non beveva di più, semmai un po’ di meno.
Forse, se si fossero trasferiti altrove… La Camargue, magari. O la Grecia… una delle isole più piccole. Il suono e la vista del mare, pensò, sarebbero stati un conforto. Lassù c’era soltanto il silenzio o l’ululato inumano del vento. E i campanacci delle mucche, d’estate, lontani, malinconici.
Prese la bottiglia dal solito posto, attenta a non farla tintinnare. Era ormai mezza vuota; lei non s’era accorta che il livello fosse tanto calato. Versò la solita dose nel bicchiere, e poi ne versò ancora un poco. Dopotutto, aveva ancora qualcosa in mano. Bevve a piccoli sorsi, uno dietro l’altro. Il liquore la riscaldò e le montagne lontane sembrarono meno spaventose. Poi si stancò di sorseggiare e buttò giù il resto, e sentì il calore più vivo, più pesante. Tenne in mano il bicchiere vuoto e lo fissò. C’era silenzio: non sentiva altro che il respiro di Ruth addormentata e il ticchettio dell’orologio. Lo guardò. Solo un quarto d’ora. La cosa migliore, decise, era versarsi un altro sorso e non toccarlo per… per quanto? Un altro quarto d’ora? Mezz’ora, magari? L’importante era vederlo davanti a sé, disponibile, in attesa di un suo atto di volontà.
Cominciò a bere il secondo bicchiere dopo dieci minuti, e l’insuccesso la depresse tanto che lo vuotò in fretta e se ne versò un altro. Questa volta non si fissò limiti di tempo e fu sorpresa e compiaciuta nel constatare che la tentazione era meno forte. Aveva avuto bisogno di rilassarsi, e forse quei due bicchierini erano bastati allo scopo. Adesso si sentiva rilassata, e fisicamente stanca… non aveva sonno, ma era stancante stare seduta su una seggiola. Prese il bicchiere e senza far rumore si accostò al letto di George. Posò il bicchiere sul comodino e si sdraiò. Poteva vedere nello stesso tempo Ruth e il bicchiere, e il letto morbido era un conforto. Il letto di George. Pensò a lui, con affetto. Non sono infelice, si disse… chi lo sarebbe, con George? Forse, certe cose bisogna pagarle, e alcuni di noi non hanno il danaro. Così dichiariamo fallimento. Prese il bicchiere, lo accostò alle labbra, inclinandolo senza versare il liquore, e bevve ancora un po’.
Quando si svegliò si rese conto, con un senso di colpa, che mentre lei era assopita Ruth poteva essersi svegliata ed avere visto il bicchiere sul comodino. Fu questo il primo trauma, nel vedere vuoto l’altro letto: Ruth si era svegliata, forse era andata in bagno, e si era accorta che lei beveva. Si sentì coperta da un sudore di vergogna. Passò un momento o due in attesa di udire i passi che ritornavano, chiedendosi come avrebbe potuto giustificarsi, prima di ricordare perché era lì: avrebbe dovuto sorvegliare Ruth.
Si alzò in fretta, senza pensare più al bicchiere, e uscì dalla stanza. La porta del bagno era chiusa. Bussò, non ricevette risposta e girò la maniglia. La porta si aprì, e il bagno era vuoto. Controllò le altre stanze di quel piano, ma senza molte speranze. Il bagno del primo piano… forse Ruth aveva pensato che questo fosse occupato, ed era andata là. Era una probabilità molto vaga, comunque andò a vedere. La porta era chiusa, e anche stavolta non ottenne risposta quando bussò. Ma stavolta non si mosse quando lei cercò di aprirla.
George, quando lo avvertì, non perse tempo. Corse di sopra, si avventò contro la porta del bagno, e la spalancò. Mandy, che gli era alle spalle, vide che dentro non c’era nessuno, e che la finestra era aperta. Un po’ di neve finissima entrava, portata dal vento: doveva cadere dal tetto, perché il cielo era azzurro e limpido.
Era la via più facile per uscire inosservati dallo chalet. C’era una tettoia, circa un metro al di sotto del davanzale della finestra. Il salto dalla tettoia a terra non era più di due metri e quaranta, e sotto c’era la neve soffice. Era possibile seguire il percorso seguito da Ruth: la neve smossa lungo la tettoia, e una buca nel punto in cui era saltata giù.
Mandy disse, avvilita: «La colpa è mia. Non avrei dovuto addormentarmi.»
George le cinse le spalle con un braccio, la strinse.
«Eri stanca, tesoro. Non preoccuparti. Non credo che avremo difficoltà a ritrovarla.» E si staccò dalla finestra. «Non è di questo che avevo paura.»
«È uscita per tornare a cercare il bambino?»
«E perché altro, se no? Ma anche se trovassimo quel poverino, adesso, temo che lei non ci crederebbe. Comunque, andiamo a cercare Selby.»
Dallo chalet, non si scorgeva traccia di Ruth. Elizabeth dormiva ancora, e anche Stephen: ma tutti gli altri erano radunati a pianterreno. Diana, che stava aggrappata a Grainger, disse:
«Sarà meglio uscire a coppie, non vi pare? E andare in direzioni diverse.»
Grainger osservò, impaziente: «Non c’è bisogno di una ricerca in grande stile. È ovvio dove si è diretta.»
«Ovvio?» chiese Douglas Poole.
«Credo di sì. Su, oltre la valanga. È là che afferma di avere visto il bambino.»
«Questa volta, potrebbe essere convinta di vederlo nella direzione opposta.»
«Ne dubito. Direi che ormai è una fissazione. Probabilmente non la cambierà.»
Jane disse: «Che strano. Il bambino… con un cesto.»
Mandy fu scossa da un brivido d’inquietudine. «Ha detto proprio così? Che il bambino aveva un cesto?»
«Sì,» disse Grainger. «È quel tocco strano che accompagna certi tipi di allucinazioni fantastiche. Assurdo e plausibile nello stesso tempo.»
Mandy disse: «Però manca un cesto.»
La guardarono. George chiese: «Ne sei sicura?»
«L’ho notato quando sono scesa a controllare le scorte di viveri. Il vecchio cesto di vimini che stava appeso dietro la porta.»
Vi fu un silenzio. George disse, ma piuttosto dolcemente:
«Forse non hai guardato nel posto giusto. Forse qualcuno lo ha spostato.»
Erano tutti a disagio, come se fossero di fronte a qualcosa d’imprecisabile. Grainger disse, con forza:
«È ridicolo! Assolutamente ridicolo.»
Jane disse: «Mi domando…»
«Che cosa?»
«Lei ha detto che qualcuno può averlo spostato. Potrebbe averlo preso Andy… prima che succedesse tutto questo. Per giocare, magari. E Ruth potrebbe averlo visto con il cesto in mano. Così, questa mattina, ha immaginato di vederlo nello stesso modo.»
L’atmosfera si rischiarò di colpo. Grainger disse, in tono di elogio, rumorosamente:
«Ci vuole una donna per trovare la spiegazione logica. Certo, è così. Non può essere sicura che ieri il cesto non ci fosse, vero, Mandy?»
«No.»
Era vero: non poteva esserne sicura. D’altra parte, aveva l’impressione che ci fosse stato. E poi c’era un’altra cosa di cui non aveva parlato: i viveri scomparsi. Formaggio, gallette, due scatolette di corned beef. Aveva pensato che qualcuno li avesse presi per precauzione, nell’eventualità che rimanessero isolati a lungo e che il cibo cominciasse a scarseggiare. Non le era difficile immaginare Deeping che faceva una cosa del genere. E quella poteva essere la spiegazione. Comunque, era inutile parlarne.