Il sole scese dietro i picchi, la luce svanì dal cielo, e George, agitando le braccia, li richiamò per rientrare nello chalet. Le nubi sopra la valle erano di un grigio denso e minaccioso, e più alte, pensò Douglas, come se salissero per inghiottirli. Si sentiva stanco e depresso. Non avevano visto traccia di Ruth e del bambino. Li avevano chiamati, come aveva fatto l’altro gruppo, e avevano udito le proprie voci echeggiare esili sopra la neve. Lontano si muovevano le figure minuscole, in un grande vuoto. Dopo i primi cinque o dieci minuti, lui aveva rinunciato alla speranza di ritrovare quei due.
Si radunarono in un’atmosfera tetra. Mandy faceva il giro dello chalet, accendendo le lampade a petrolio. All’inizio gli erano sembrate simpatiche, ma adesso si rendeva conto della loro insufficienza, delle ombre che lasciavano negli angoli. George riaprì il bar, e fu raggiunto da Deeping, dai Grainger e da Diana. Douglas, che non se la sentiva di bere, andò in salotto dove, almeno, c’era un fuoco allegro. Jane lo accompagnò e sedette di fronte a lui. Non prese un libro: continuò a guardare il fuoco, con le mani posate sulle ginocchia. Due luci le rischiaravano il volto: quella del fuoco e quella della lampada. Aveva un viso buono, pensò. Era un peccato che la bontà contasse così poco, in una donna.
«Immagino,» disse Douglas, «che forse Ruth tornerà indietro, quando farà buio.»
«Sì.»
«Se troverà la strada.»
Jane rabbrividì. «È orribile pensare che siano là fuori. Orribile.»
«Riesce a immaginare perché…» Douglas s’interruppe. «Voglio dire, avrei capito se non avesse ritrovato il bambino, se fosse ancora sconvolta dall’angoscia. Ma così…»
«Qualche volta ci sono delle discronie.» La voce di Jane era asciutta e concentrata, come se lei ripensasse a qualcosa che sapeva da molto tempo, ma che non aveva mai compreso perfettamente. «Ci si sveglia e ci si rende conto che è accaduto qualcosa di orribile, e che sul momento non lo si è capito: ma è accaduto, e dopo niente potrà più tornare come prima.»
«Ma Ruth aveva con sé il bambino. Lo aveva ritrovato, vivo e in buone condizioni.»
«Sì.» Jane annuì. «Questo è vero.»
Douglas attese che proseguisse, ma lei tacque. Non aveva parlato tanto di Ruth, pensò lui, quanto di se stessa. Aveva subito la perdita di una persona cara. Era una donna, pensò, capace di una devozione duratura e costante. Doveva essere stato sconvolgente perderne l’oggetto dopo pochi anni di matrimonio.
A quel pensiero, il silenzio tra loro divenne imbarazzante. Douglas cercò di pensare a qualcosa da dire, ma le parole e le frasi gli turbinarono vuote nella mente, banali e offensive nello stesso tempo. Si disse che avrebbe fatto bene a tacere e poi provò l’impulso irresistibile di parlare.
«Noi tutti dovremmo abituarci all’idea dell’impermanenza. Dovrebbe esserci una punizione, quando cerchiamo di trasformare le cose transeunti in durature.»
«Davvero?» chiese lei. «E quali sono le cose transeunti, tra l’altro?»
«Tutto passa. Ed è un bene. Se la felicità durasse, durerebbe anche l’angoscia. Invece, possiamo sempre aspirare ad una monocromia. La normalità è solo dietro l’angolo.»
E naturalmente adesso parlava di se stesso, come aveva sospettato che facesse Jane. Notò lo sguardo di lei: probabilmente il tono della voce lo aveva tradito.
Lei disse, sottovoce: «E se una persona sceglie la monocromia, volutamente, volgendo le spalle allo splendore… e poi perde anche quello?»
«Le monocromie si perpetuano. Si rinnovano molto rapidamente: questo è il loro grande merito.»
Vi fu un altro breve silenzio, prima che Jane dicesse:
«Andrò a fare il bagno. Mi scusi.»
Aveva il volto preoccupato, un po’ teso, e Douglas si chiese se si era offesa per qualcosa che le aveva detto lui. Ma Jane, arrivata sulla soglia, si voltò a guardarlo, e sorrise.
«Ci vediamo a cena, Douglas.»
«Prima beviamo qualcosa,» disse lui. «Al bar.»
Jane annuì. «Con piacere.»
L’atmosfera rimase pesante, e non venne migliorata dal fatto che si cominciava a sentire la realtà del ricorso alle razioni d’emergenza nonostante gli abbellimenti di Mandy. C’era una minestra nutriente, ma la portata principale, benché dimostrasse quel che si poteva fare con il corned beef, era pur sempre corned beef. Poi ci fu pompelmo in scatola, con aggiunta di kirsch per renderlo accettabile. In realtà, considerata la situazione, era una cena eccellente, ma nessuno mostrò di apprezzarla molto. Poi George e Grainger tentarono di riprendere a bere, ma era evidente che non se la sentivano. Erano tutti stanchi. Poco prima delle dieci, Mandy disse:
«Se non occorre altro, io andrei a letto.» E guardò Deeping. «Lasceremo accese tutta notte le lampade al pianterreno, caso mai… E penso sia meglio lasciare Stephen nella branda in camera nostra, per non disturbarlo. Le va bene?»
«Sì,» disse Deeping. Sbadigliò. «Credo che andrò a letto anch’io.»
Vi fu un esodo generale, cui prese parte anche Douglas. Grainger sembrava deciso a restare alzato, ma Elizabeth insistette perché salisse con lei. George rimase giù: da poco si era versato un whisky. Ne aveva bevuto parecchio, quella sera, ma lo portava bene.
Quando fu a letto, Douglas pensò per prima cosa alla donna ed al bambino che erano fuori, nella notte gelida. Adesso la luna era parzialmente oscurata dalle nubi, e si stava levando di nuovo il vento: dalla sua finestra, aveva visto il chiarore andare e venire tra gli squarci delle nuvole. Ma l’immagine, per quanto terribile, non prese vita. Esisteva in un vuoto, e gli stessi personaggi erano irreali. La donna era pazza, e la follia alienava la comprensione. Il bambino… l’immagine di lui morto era più forte del ricordo di quando, dopo, l’aveva rivisto vivo.
Perciò, abbandonando il presente, ritornò a Caroline, e all’amalgama di passato e di futuro che aveva cominciato a costruire, laboriosamente ma con gioia. Le scene ricordate frammiste a quelle immaginate… e dopo un po’ era difficile distinguere le une dalle altre. Né lui ci teneva a farlo. Anche quello era irreale, ma si sentiva a suo agio in quell’irrealtà. Al suo ritorno a Winchester avrebbe trovato una lettera… no, Mrs. Williams gli avrebbe lasciato un appunto sulla scrivania. E lui avrebbe chiamato… non il numero di Blackheat, naturalmente. Un albergo? Non un albergo di Winchester… l’improbabilità era tale da far tremare l’immagine, da farla quasi dissolvere. Un albergo di Londra, del tipo in cui Caroline avrebbe probabilmente preso alloggio, tornando sola dall’America. Il Royal Court, magari; a lei piaceva Chelsea. Douglas calcolò i tempi, approssimativamente. L’aereo che arrivava all’aeroporto di Londra poco prima di mezzogiorno. Poi il passaggio alla dogana, l’arrivo al terminal verso la una, pranzo, e poi c’era un treno verso le tre e mezzo, no? Per le sei sarebbe stato nel suo appartamento. Se avesse telefonato subito e avesse parlato con lei, avrebbe potuto prendere il treno delle sei e mezzo per tornare a Londra, e pranzare con lei… in qualche posto speciale. Forse la White Tower. L’Etoile. Oppure, in un’atmosfera più sentimentale, Au Père de Nico… E poi tornare indietro insieme per le vie buie e silenziose, con l’asfalto lucente di pioggia nella luce dei lampioni. Il profumo di Caroline, il ticchettio dei suoi tacchi…
Si svegliò, udendo un suono che in un primo momento non riuscì a localizzare, ma che era metallico, familiare. Certo… la maniglia dell’uscio che girava. La porta che si apriva. Dei passi. Non una persona sola: almeno due. Intontito dal sonno, chiese: «Chi è?»