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«Davvero?» chiese George. «Cos’è che non le piace nella seconda?»

«I Deeping sono cambiati,» disse lentamente Selby. «Da diversi punti di vista. La temperatura corporea, il polso. E la resistenza al freddo sembra molto più spiccata. Ma hanno ancora certe limitazioni fisiche. Entrano furtivamente in una casa con normali metodi umani, e fuggono come farebbe un essere umano.»

George tirò fuori un pacchetto di sigarette, l’offrì a Douglas, che ne prese una. Poi fece scattare l’accendino. Mentre Douglas accendeva, disse:

«Che cosa sta cercando di dire, Selby… che non sono umani? E cosa diavolo significa?»

Aveva la voce ferma. E anche la mano. Ma Selby pensò di avere una spiegazione per il risentimento dimostratogli da George. Non era perché lui avesse spaventato le donne: quello era solo il pretesto. Lo sconvolgeva sentire esprimere il suo stesso terrore. George era un uomo che temeva ben poche cose nel mondo naturale, ma aveva paura del sovrannaturale. Ora che se ne rendeva conto, si sentì più comprensivo. Disse in tono blando:

«Non sto cercando di dire niente di speciale. Consideriamola una malattia contagiosa. Il fatto è che sono diversi, sotto alcuni aspetti.»

«Non dà troppe cose per scontate, Selby?» chiese Douglas. «Non ha accertato il polso e la temperatura di Ruth… solo del bambino. Lei sembrava gelata, d’accordo, ma era stata fuori a cercarlo. E di Leonard non sa niente: solo che è andato con loro… con sua moglie e suo figlio.»

«E la temperatura e il polso del bambino potevano essere collegati al collasso e al coma,» disse Selby. «È giusto. Forse ho ecceduto. Ma continuo a non essere particolarmente ansioso di vedere arrivare i soccorsi di Nidenhaut, per il momento.»

«Perché?» chiese Douglas.

Selby si alzò e andò alla credenza. Prese due bicchieri e li portò al tavolo. Guardò Douglas con aria interrogativa, e versò da bere per tutti e due. Poi disse:

«Perché, fino a quando noi siamo isolati dal resto del mondo, lo sono anche loro. Se la strada viene riaperta, possono portare il contagio a Nidenhaut. E da Nidenhaut…»

«Crede che potrebbe esserci un’epidemia?» chiese Douglas. «Non è…»

George l’interruppe. «Lei è bravissimo a far venire la pelle d’oca alla gente, Selby.» Aveva un tono pesantemente sarcastico. «Credevo che voi medici foste tutti forti e silenziosi. E abituati a tenere a freno l’immaginazione, anziché a lasciarla correre a briglia sciolta.»

Selby rispose amabilmente: «Lei ha in mente i medici con pazienti che si svegliano di notte con il mal di pancia e credono di avere un cancro. Il mio lavoro consiste nel realizzare i sogni, non nello scacciare gli incubi del desiderio di morte. Non ho nessun motivo di essere forte e silenzioso.»

«Oh, diavolo!» fece George. Prese la bottiglia e si riempì di nuovo il bicchiere. «Così non si approda a nulla. Propongo che voi due, e le signore, ve ne torniate a letto tutti quanti. Potremo riparlarne domattina.»

Selby pensò, George, lì solo con la bottiglia di whisky e la luce vacillante della lampada, e il cigolio e lo scricchiolio del legno nel vecchio chalet.

«Lei ha più da fare, di giorno,» gli disse. «Resterò io.»

«No!» Il suo tono era un po’ troppo enfatico. «Tocca a me, Selby.»

Si fissarono. Il silenzio fu rotto da Douglas.

«A me non dispiace restare alzato.» Fece una pausa. «Potremmo lanciare una moneta. Oppure giocare ai dadi.»

George scoppiò a ridere, all’improvviso. «Non ho mai detto di no a un giro di dadi. Vado a prendere il bussolotto.»

Mentre George era fuori, Douglas sorseggiò il liquore, poi andò alla credenza per diluirlo.

«Pensa davvero che i Deeping siano un pericolo, Selby?» chiese. «Per gli altri, oltre che per noi?»

«Non so,» fece Selby. «Preferisco non sottovalutare le cose. Né i pericoli, né l’intelligenza altrui.»

«Crede che si tratti d’una specie di malattia?»

Selby scosse il capo. «Non lo so.»

George tornò, facendo tintinnare i dadi nel bussolotto di cuoio. Sembrava più allegro: anzi, sogghignava.

«Le signore credono che ci siamo sbronzati. Tranne Diana. Voleva venire qui. Tre giri?»

«Uno,» disse Selby. «Altrimenti resteremo alzati tutta notte. Assi in su e re a lato.»

Ognuno di loro lanciò un dado. Selby e Douglas tirarono un fante ciscuno, George un re. Prese il bussolotto, raccolse tutti i dadi, li agitò, rovesciò il bussolotto e, coprendolo con le mani, esaminò il suo punto. Poi passò il bussolotto a Selby, attraverso la tavola.

«Tre fanti.»

Sorrideva, con gli occhi intenti. Selby annuì, prese il bussolotto.

C’erano due fanti, con una donna, un dieci e un nove. Senza esitare, tirò fuori il nove e il dieci, e li lanciò.

Vennero un fante e una donna. Selby disse:

«Quattro e una donna.»

Douglas prese il bussolotto, guardò sotto, esitò, e mostrò i dadi. Lasciando i tre fanti sul tavolo, lanciò la donna, dentro al bussolotto.

George lo fissò. «Allora?»

Douglas guardò sotto al bussolotto. «Quattro fanti e un re.»

George alzò la mano. «Che jella.» C’erano una donna e un nove. George prese i dadi e li rimise nel bussolotto. Agitandolo, disse: «A noi due, Selby.»

Guardò, poi spinse il bussolotto attraverso la tavola.

«Minima.»

Teneva gli occhi fissi su Selby: questi batté le dita sul fondo del bussolotto rovesciato. Era stata un’occhiata rapidissima, ma non significava nulla: anche con dei dadi sbiaditi come quelli, George aveva gli occhi acuti e la sveltezza necessari per individuare senza esitazioni il risultato di un lancio. La precedente dichiarazione di tre fanti era stata di prelazione, e falsa, ma era riuscito a passarla a Douglas. Adesso che erano rimasti solo loro due, la situazione era più critica. E se lì c’era una scala minima, poteva fare una cosa sola: rimettere in gioco il nove nella speranza che uscisse un asso, e chiamare una scala massima. C’era una probabilità su cinque. E naturalmente, poteva darsi che la scala non ci fosse per niente.

Scoperchiò. Asso, re, donna, dieci, nove. Una scala buca.

«Peccato,» disse.

George annuì. «Era un rischio. Le lascio la bottiglia. Vada a prenderne un’altra al bar, se questa la finisce. Ho lasciato la chiave dentro.»

La bottiglia era piena per tre quarti. «Se la finisco,» disse Selby, «non ce la farò ad arrivare fino al bar.»

Quando gli altri furono andati a letto, Selby si versò dell’altro whisky, e fece rotolare pigramente i dadi sul tavolo. Tre assi. Un buon primo lancio. Pensò alla partita che avevano appena giocato e a George. Qualche volta, George faceva dichiarazioni preliminari false, specialmente nel gioco finale, ma non l’aveva mai sentito, prima, dichiarare una scala. C’era una sola spiegazione possibile: aveva fatto apposta, sapendo che Selby, a meno che giocasse con pazzesca leggerezza, avrebbe cercato di batterla. Aveva dichiarato per perdere. E poteva averlo fatto per un solo motivo. La paura. George, disperatamente, non voleva rimanere lì solo, ma l’orgoglio l’aveva spinto ad offrirsi. E i dadi gli avevano offerto il mezzo per cavarsi d’impaccio senza perdere la faccia.

In fondo era giusto. Le debolezze altrui si potevano riconoscere, ma senza troppa insistenza. Non c’era niente di male, purché non si facesse capire chiaramente ciò che si era scoperto. Selby era soddisfatto di non aver lasciato intendere a George quanto aveva capito, di averlo lasciato tornare a letto convinto di aver salvato l’onore.

Un lontano scricchiolio del legno gli ricordò perché si trovava lì. Aveva controllato la cantina, si era assicurato che la porte fosse sprangata, le finestre ben chiuse. In quel silenzio, lo spicinio di un vetro che si rompeva si sarebbe sentito chiaramente. Tuttavia, pensò, non si trovava nella postazione migliore. Avrebbe dovuto tener d’occhio le scale. Anzi, si disse, avrebbe potuto sedersi sulla scala, ma il bar, con la porta aperta, sarebbe stato un buon luogo per stare di vedetta, e molto più comodo. Prese il bicchiere, e poi, ripensandoci meglio, anche la bottiglia, e si avviò verso il bar.