Guardò fuori dalla finestra a doppi vetri. La luna era seminascosta dalle nubi. La luce era appena sufficiente per distinguere la linea del pendio, ma non c’era la possibilità di distinguere delle figure, a meno che venissero molto vicino. Ma quelli l’avrebbero fatto? Le loro facce oltre la finestra, supplichevoli, ad implorare che li facesse entrare. O forse avrebbero fatto smorfie orribili. Come una scena di un film dell’orrore. Selby sorseggiò il liquore e sorrise. Era ridicolo. I Deeping, due coniugi del ceto suburbano, con il figlio… era impossibile collegarli a una nozione d’orrore.
Eppure adesso erano là fuori, nella neve. Lì, all’esterno della finestra, era appeso un termometro. Selby portò la lampada e guardò, attraverso il vetro. Non poteva esserne sicuro, ma gli pareva che segnasse sei o sette sotto zero. Una coppia del ceto medio suburbano, e il figlio… E per il bambino, era la seconda notte all’addiaccio. Questo era già abbastanza orribile: sia pensare a un bambino normale che soffriva per il freddo atroce, sia ad un essere cambiato, insensibile a quella temperatura. Era un orrore assurdo, insensato.
E poi, pensò con tetro umorismo, c’era una specie di pena del contrappasso, per lui. Gli anni di disinvolta eterodossia, di blande beffe agli idoli della medicina, ai colleghi troppo zelanti, lo avevano lasciato ignorante e impotente quanto il medico più devotamente ortodosso. Forse ancora più impotente, perché non era in grado di difendersi da quella bizzarria, di trovare un rifugio nel compiacimento verso se stesso. Qualcosa aveva cambiato i Deeping, li aveva cambiati fisicamente e mentalmente: e quel qualcosa non esisteva nella sua filosofia, come non esisteva in quella del povero vecchio Orazio nell’Amleto. Una malattia? Isterismo? Tanto valeva accettare i diavoli alpini di Marie. Era una teoria più ampia, e quindi più soddisfacente.
Un suono lo scosse: alzò di scatto la testa. Veniva dalle scale: ma dalla parte più alta della casa, non dalla cantina. Ebbe un istante di apprensione, sospettò che i Deeping fossero riusciti a passare a sua insaputa, che lassù tutti fossero cambiati, lasciandolo orribilmente solo: ma poi si scosse. Molto probabilmente era George, tenuto desto dalla coscienza, che scendeva ad assicurarsi se tutto era in ordine. Un altro suono. Sì, era qualcuno che scendeva. Ma non George. Un passo troppo leggero. Un paio di pantofoline, due caviglie bianche, una vestaglia di seta azzurra.
Lei scese la scala e, senza esitare, attraversò il corridoio e si diresse verso il bar. Era perfettamente truccata, notò Selby, con i capelli ben pettinati. Le chiese, sottovoce:
«Cosa c’è, Diana? Non riesce a dormire?»
«No.» La ragazza si appoggiò al bar e lo guardò. Parlava anche lei sottovoce: non un bisbiglio da cospiratrice, ma sommessamente. «Jane si è addormentata. Ma io ero inquieta. Ho pensato… crede che bere qualcosa mi aiuterà a dormire?»
Selby rifletté per un momento, con aria seria.
«Non mi sorprenderebbe. Per nulla. Aspetti, le verso qualcosa.»
Dovette passarle accanto, per andare dietro al banco. Diana aveva un profumo che Selby aveva già sentito, ma non addosso a lei. Normalmente Diana usava un profumo leggero, da brava ragazza: questo era molto più pesante. Femme? Qualcosa del genere… lui non ricordava mai i nomi. E cosparso in abbondanza. Adesso era a una certa distanza da lei, ma il profumo era ancora forte.
«Cosa prende?» le chiese. «Io bevo whisky, ma George mi ha lasciato carte blanche.»
«Whisky: va benissimo.»
«Se porta qui il mio bicchiere, le terrò compagnia.»
In questo modo, tra loro due c’era il banco del bar. Non era tipico di Diana, pensò Selby mentre le versava il whisky, allungandolo con acqua. Era certo di non essersi ingannato sul suo conto: era seducibile, e lui sarebbe rimasto molto deluso se non fosse stato così. Ma non era una mangiatrice d’uomini. Eppure quella sua visita era inequivocabile. Non era solo questione del profumo, della pettinatura e del trucco così accurati. C’era una provocazione nei modi di lei: discreta, ma molto evidente. Gli sfiorò le dita quando lui le passò il bicchiere. La vestaglia copriva la camicia da notte. La scollatura a V era profonda, e mostrava un poco le curve bianche dei seni, l’inizio della valle in mezzo ad essi.
Selby respirò profondamente e alzò il bicchiere.
«Salute.»
«Salute,» disse Diana. «È strano essere svegli, quando tutti gli altri dormono, no?» Si guardò intorno. «E quella lampada… rende tutto ancora più strano…»
Non finì la frase. «… e romantico» pensò Selby: quello era sottinteso. No, non era il comportamento tipico di Diana. Magari lei avrebbe anche detto di no, se lui avesse preso al volo la battuta: ma era convinto che non l’avrebbe detto. Era l’atmosfera di tensione, probabilmente. Non si riteneva che certi pericoli facessero quell’effetto alle donne? Ma era inutile perdere tempo in ipotesi astratte. La situazione imponeva di agire: o almeno di parlare prontamente, per salvare tutto e tenere le porte aperte per il futuro.
«Sua sorella ha il sonno pesante?» chiese.
Diana abboccò all’amo. «Jane? Molto pesante.»
«Sì, l’avrei immaginato. Qualche volta, però, è facile ingannarsi sul conto della gente. Prenda Elizabeth. La notte è molto irrequieta… si sveglia continuamente. E se ne va in giro. Mi sorprende che non sia ancora capitata qui.»
Era una grossa bugia, ma era certo che Elizabeth l’avrebbe approvata. Guardò negli occhi la ragazza, per un lungo istante. Diana gli sorrise e scrollò lievemente le spalle. Accettata, pensò lui con sollievo. Il pericolo era passato.
Diana disse qualcosa a proposito dei Deeping, ma senza molto interesse, poi passò ad argomenti meno inquietanti. Il bello di andare in vacanza in quel periodo era che quando si tornava a casa si trovava la primavera già iniziata: gli alberi che mettevano le gemme, le giornate che si allungavano… L’ufficio dove lavorava lei era nei pressi del Marble Arch, e a lei piaceva attraversare a piedi il parco e prendere l’autobus per Knightsbridge. Quando non era carica degli acquisti fatti a mezzogiorno, cioè. Adesso comunque era più facile, perché avevano aperto un negozio di gastronomia vicino a casa sua, e restava aperto la sera e anche la domenica mattina.
Diana continuò a chiacchierare, e Selby l’ascoltò con piacere. Era una cosina graziosa e vivace, e lui avrebbe avuto il tempo e l’occasione di approfittarne. Per il momento, gli bastava avere la sua compagnia, ascoltare con scarsa attenzione ciò che diceva, pensare alle possibilità future e, nello stesso tempo, restarsene ben tranquillo nell’attuale virtù. Dove aveva intenzione di andare quell’estate? Era piacevole pensare all’estate.
«Mangiamo dei panini nel parco,» disse lei. «Oppure facciamo la coda, se è una serata in cui c’è un concerto di Beethoven.»
«I Prom?» chiese Selby. «Non avrei mai pensato che fosse una Prommer.»
Diana ribatté, lievemente indignata: «Questo sarà il quinto anno, per me.»
Selby ne fu entusiasta. «E fa la coda tutta la notte per l’ultimo concerto? E agita le bandiere per festeggiare Sir Malcolm Sargent?»
«Io non agito le bandiere. L’anno scorso, però, mi hanno scelta per offrirgli un mazzo di fiori.»
«L’avrei scommesso. Posso venire con lei, qualche volta, l’estate prossima? Non in una serata di Beethoven, però: sono troppo vecchio per fare la coda.»
«Ma stare in coda fa parte del divertimento. Si conosce tanta gente.» Poi lo guardò con aria seria. «Che genere di musica preferisce?»