«Tutti i generi, purché ci sia una grande orchestra con tanti strumenti ad arco. Persino Ciaikovski.»
«A me piace Ciaikovski!»
Diana era scattata con incantevole indignazione, sporgendosi verso di lui attraverso il bar, per dare maggior forza alle proprie parole. Irresistibile. Anche Selby si sporse e la baciò. Lei fu colta di sorpresa, poi sorrise, tenendo delicatamente la lingua tra i denti. Selby la baciò di nuovo, molto più a lungo, molto più efficientemente. Ma l’efficienza era molto limitata dalla barriera tra loro. La lasciò andare, con l’intenzione di rimediare. Quando si scostò, guardò la finestra, sopra la testa di Diana. Al di là del vetro, una faccia lo fissava.
Non era né supplichevole né minacciosa. Una faccia inespressiva, calma, attenta. Come un biologo marino che guarda oltre il vetro di un acquario. Ma quella era la faccia di un bambino di otto anni, e fuori la temperatura era di circa dieci gradi sotto zero.
«Hai finito il liquore,» disse a Diana. «Penso che adesso dovresti riuscire ad addormentarti.»
La ragazza parve leggermente delusa, ma la voce di lui aveva un tono deciso che accettò, senza protestare. La guardò salire le scale, prima di accostarsi alla finestra. Non si aspettava di trovare niente: la faccia si era abbassata, scomparendo, nel momento in cui lui l’aveva vista. E non c’era nulla… nulla tranne la notte e il lievissimo lucore della neve. Pensò all’ubicazione della finestra. Lì il terreno era in forte pendenza: il davanzale, all’esterno, doveva trovarsi a un metro e ottanta dal suolo. Perciò il bambino, presumibilmente, era stato issato sulle spalle del padre. Un gesto molto normale, molto umano. Selby rabbrividì.
Si versò dell’altro whisky e poi andò a fare il giro, controllando scrupolosamente porte e finestre.
La mattina dopo parlò a George e a Douglas dell’apparizione alla finestra anche se, naturalmente, non disse che in quel momento Diana era con lui.
«Non cercava di entrare?» chiese Douglas.
«No. Guardava soltanto.»
«Per vedere quel che stava facendo lei,» disse George. Selby gli lanciò un’occhiata tagliente, ma quell’osservazione non aveva doppi sensi. «Una ricognizione.»
«Qualcosa del genere.»
«Non si è vista traccia di loro, questa mattina?» chiese Douglas.
«No. Del resto, non si può vedere molto, adesso.»
Erano nel bar. Selby indicò la foresta. Fuori, la nebbia grigia turbinava nelle piccole correnti d’aria. La nebbia era scesa verso l’alba, o meglio era salita dal fondovalle, e si era addensata intorno allo chalet. La visibilità era di una decina di metri al massimo.
«Così ci si sente veramente isolati,» disse Douglas.
Nella sua voce c’era un disagio che rispecchiava, pensò Selby, lo stato d’animo di tutti. Avevano sperato che le loro ansie si acquietassero durante il giorno, alla vista dei pendii vuoti sotto il sole, dell’immutabilità rassicurante delle vette lontane. Invece erano circondati dalla nebbia che li isolava dal mondo più completamente dell’oscurità della notte. Di notte c’era la possibilità di vedere la luna, le stelle, le luci di St. Gingolph dall’altra parte del lago. Adesso non c’era altro da vedere che la nebbia, che ondeggiava, ribolliva freddamente, ma non cambiava mai. Era deprimente, snervante.
George disse: «Pensavo che sarebbero tornati.»
Vi fu un silenzio. Ogni minuto che passava, pensò Selby, era un altro chiodo piantato nella bara della soluzione consolante e soddisfacente che tutti speravano di trovare. Disse, bruscamente:
«Che armi ha in casa?»
George alzò la testa. «Armi?»
«Qualche fucile?»
«Un calibro dodici. D’estate, vado un po’ a caccia di conigli.»
«Cartucce?»
«Un paio di scatole. Senta, Selby, dove vuole arrivare? Sono soltanto tre, e uno è un bambino. È improbabile che ci attacchino.»
«Quando siamo insieme no: su questo sono d’accordo. Siamo molto più numerosi. Ma se qualcuno deve uscire da solo, ritengo che debba essere in grado di difendersi.»
«Di difendersi?» chiese Douglas, incredulo. «Dai Deeping?»
Ma nella sua voce c’era apprensione, non soltanto incredulità. C’era un pericolo, pensò Selby, indipendente dalla possibile minaccia rappresentata dai Deeping dopo la metamorfosi: il pericolo del panico. Da quel punto di vista, George aveva avuto ragione, la sera prima, e lui aveva avuto torto. Ma dovevano rendersi conto che il pericolo esisteva. Pensò, stancamente: è probabile che io non abbia le idee chiare. Due notti di seguito in piedi, e solo qualche ora di sonno. Scosse il capo e bevve il caffè che Mandy aveva portato.
George disse: «Non uscirà nessuno. Del resto, sarebbe una pazzia, con questa nebbia. Per il momento non possiamo far altro che starcene qui, e vedere cosa succede. Alla fine, saranno loro a dover venire da noi. Li spingerà la fame. Si sono precipitati fuori così in fretta che non possono avere avuto il tempo di prendere delle provviste.»
«Può darsi che a lungo andare abbia ragione lei: ma non mi aspetto risultati immediati.»
«E perché?»
«Per quanto riguarda la fame soggettiva, non vedo perché dovrebbe dare loro più fastidio di quanto sembri dargliene il freddo. Non reagiscono più in modo normale ai comuni sintomi fisici. Comunque, hanno ancora bisogno di cibo come carburante, è ovvio: ma probabilmente gliene basta molto meno. Il metabolismo ridotto comporta un minore consumo di energie. E può darsi che quando non debbono agire entrino in una specie di stasi. Vi ricordate il coma del bambino, e la sua ibernazione, quando si è seppellito nella neve? E probabilmente sono in grado di utilizzare le riserve. Per il bambino non sarà così, ma i due adulti hanno addosso abbastanza grasso per tirare avanti parecchio, al ritmo con cui sembrano agire.»
George osservò: «Debbo dire che non è una prospettiva molto allegra. Per quanto crede che durerà?»
«Non ne ho idea.»
Douglas osservò: «Stiamo parlando di loro come se non fossero… be’, umani.»
Era inutile fare commenti, pensò Selby. George pareva pensarla allo stesso modo. Disse a Selby:
«Però porterebbero egualmente via dei viveri, se ne avessero l’occasione, no? Dovranno pur mangiare, prima o poi.»
«Il bambino si è portato via dei viveri, la prima volta che ha lasciato la casa. Sì, prima o poi avranno bisogno di cibo.»
«Mi chiedevo se non potremmo trovare il modo di preparare una trappola,» disse George. «Usando come esca i viveri. Qualcosa del genere».
«Potremmo tentare.» Selby sbadigliò. «Non sappiamo bene come funzionano le loro menti, ma sarebbe un errore considerarli meno intelligenti di quanto fossero… prima di cambiare.» Si interruppe, ripensò al viso che aveva veduto. «Sì, sarebbe un grave errore.» Finì il caffè. «Dio, come sono stanco. Vado a dormire un po’. Chiamatemi, se succede qualcosa.»
Si addormentò non appena si fu buttato sul letto, e dormì di un sonno pesante, senza sogni. Elizabeth dovette scuoterlo per svegliarlo. Aprì gli occhi e la guardò, stordito.
«Mezzogiorno,» annunciò lei. «Avevi detto di svegliarti a quest’ora.» Sorrise, un po’ freddamente. «Mi sembri un po’ malconcio, però. Quanto whisky hai bevuto, stanotte?»
«Ho sete,» borbottò lui.
Il bicchiere era vuoto. Elizabeth lo riempì sotto al rubinetto e glielo portò.
«Preferisci pranzare a letto?»
Selby scosse il capo, adagio. «No, mi alzo.» Quando Elizabeth si voltò per andarsene, le chiese: «È successo qualcosa, mentre dormivo?»
«Niente. E siamo ancora circondati dalla nebbia.»
Selby guardò la finestra, un vacuo riquadro grigio. Non era molto rincuorante. Ma era un sollievo sapere che la mattina era trascorsa senza che accadesse nulla.
Selby fece il bagno, si vestì e scese. Trovò Douglas e George nel bar; il primo beveva una birra, l’altro brandy e ginger ale. George chiese: