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«Come va? Cosa prende?»

«Birra anche per me, grazie. Penso che vada tutto bene.»

«Per il momento. Vorrei che la nebbia se ne andasse.»

«Di solito quanto dura?»

George alzò le spalle. «Non si sa mai. Una volta è durata una settimana.»

«Bella prospettiva.»

«Sì.» George si versò un altro po’ di brandy e poi, dopo un attimo di riflessione, aggiunse anche del ginger ale. «Siamo isolati da tre giorni. Dato che non sono ancora riusciti a sgombrare la strada, oggi avrei immaginato che mandassero un elicottero… a vedere se siamo sani e salvi, a lanciarci delle provviste, qualcosa del genere. Ma con questo nebbione non si arrischieranno.»

«No,» disse Selby. «Credo di no.»

Era esasperante pensarci. Bisognava comunicare un messaggio, mettere in guardia gli altri. E un elicottero avrebbe dovuto cercare i Deeping in modo assai più efficiente di un gruppo di gente appiedata. Comunque, prima o poi la nebbia doveva andarsene. E adesso loro erano sull’avviso, e stavano in guardia.

Mandy entrò nel bar. Aveva il volto arrossato dal calore della cucina, e una guancia macchiata di farina.

«George?»

«Sì, tesoro?»

«Peter.» George inarcò le sopracciglia. «Gli hai dato qualcosa da fare?»

«Qualcosa da fare? No. Perché?»

«Credevo fosse in cantina. Ma…»

Selby vide la faccia di George oscurarsi, sentì oscurare anche la propria. George disse sottovoce:

«Da quant’è che non lo vedi?»

VIII.

Dopo colazione, Elizabeth raggiunse Jane, che stava fumando una sigaretta dopo il caffè.

«Ah, è qui,» le disse. «Ho trovato un Monopoli, e ho pensato che dovremmo organizzare qualche partita.» Aggiunse, a titolo di spiegazione: «Soprattutto per Steve. un modo come un altro per far passare la mattinata.»

Jane annuì. «Sì, certo. Giocherò anch’io.»

Era tipico di Elizabeth, pensò, e cercò di infondere in quel pensiero una sincera ammirazione. Finché i bambini Deeping erano con i genitori, aveva badato a loro meno di tutti gli altri adulti: sembrava non notarli neppure e si limitava a dispensare loro qualche sorriso remoto e tollerante. Ma adesso che Stephen era rimasto solo, si occupava di lui con energia efficiente. Il bambino, dal canto suo, apprezzava quelle attenzioni e se ne mostrava lusingato. Elizabeth era sicura del proprio potere sui maschi, pensò Jane, a qualunque gruppo d’età appartenessero: e non era una sicurezza mal riposta.

Anche Diana giocò con loro, in salotto. Sembrava stanca, e sbadigliava di continuo. Jane faceva del suo meglio per reprimere l’irritazione. Detestava gli sbadigli incontrollati in pubblico, specie da parte di sua sorella: ma c’erano state quelle due nottatacce e alla sua età aveva bisogno di dormire molto. Alla fine le disse: «Se sei stanca, torna pure a letto.»

«Stanca?» replicò Diana. «Non sono stanca.»

«Ne hai l’aria.»

«Stavo solo sbadigliando.» Sbadigliò di nuovo, rumorosamente, e sorrise. «Tu devi essere stanca, invece. Sei così di cattivo umore. O forse invidi le mie proprietà. Steve, compro un’altra casa in Piccadilly, prima che ci arrivi Jane.»

Stephen le diede la casa e mise il danaro in banca. Poi disse:

«Loro non torneranno, vero?»

Era superfluo chiedere chi erano «loro». Nel silenzio che seguì, Elizabeth scosse rumorosamente i dadi. Poi disse:

«Non lo sappiamo, Steve. Sono ammalati, e sono andati via. Forse torneranno.»

«Forse hanno trovato il modo di scendere al villaggio.»

«Può darsi. Steve?»

«Sì?»

«Mandy te l’ha detto, non è vero, che se li vedi vicino alla casa, non devi uscire per andare da loro? Anche se ti chiamano.»

«Sì. Perché sono malati.» Il bambino rifletté. «Anche papà?»

«Purtroppo sì.»

Stephen disse: «Lo so. Sono malati nel cervello. Un mio compagno di scuola… aveva il padre così. Poi lo hanno portato in un ospedale e gli hanno fatto le scosse elettriche, e allora è guarito.»

Elizabeth disse: «Probabilmente sarà così anche con tuo padre e tua madre. Solo, non sono vere scosse elettriche… non di quelle che fanno del male.»

«E Andy?»

«Per Andy non so. Penso che guarirà anche lui. Ma dovremo trovarli tutti e sorvegliarli fino a quando sarà possibile portarli in un ospedale. Se vedi uno di loro ce lo dirai, vero? E te ne terrai lontano?»

«Sì. Se sono arrivati giù al villaggio, li cureranno là, vero? E li porteranno all’ospedale.»

«Sì. Naturalmente.»

Elizabeth tirò un sette.

«Mayfair!» esclamò il bambino. «È mio. Cinquanta sterline d’affitto, prego.»

Mentre il gioco proseguiva, Jane pensò a se stessa. Aveva creduto di vivere in un vuoto emotivo, ma forse la natura aborriva anche quel tipo di vuoto, come tutti gli altri. Per due volte, in poco tempo, si era accorta di reagire: all’abilità con cui Elizabeth trattava Stephen, e agli sbadigli di Diana. Erano due cose molto diverse, ma in entrambi i casi, la sua reazione era stata di risentimento. Forse quel risentimento stava per diventare la nota dominante della sua vita, la reazione automatica ai successi degli altri, al loro comportamento naturale? Quel pensiero la sgomentò, la spaventò. Ma quel era l’alternativa? Uscire dal suo guscio, interessarsi agli altri… diventare positiva e attiva, anziché negativa e chiusa in se stessa? Era una prospettiva sgradevole: richiedeva una spaventosa forza di volontà. E senza una ricompensa concepibile.

I dadi toccarono a lei. Li agitò.

«Ero sulla sua proprietà,» disse allegramente Stephen. «E ha dimenticato di chiedermi l’affitto! Sei. È la stazione di Fenchurch Street. Se vuole può comprarla.»

Finirono di giocare a un quarto a mezzogiorno, e Jane decise di sfruttare il tempo che restava prima di pranzo per scrivere a Wendy Gabriel. Wendy era l’unica dei suoi vecchi vicini dell’Oxfordshire con cui era rimasta in contatto: e anche quel legame, lei lo sapeva bene, era stato tenuto in vita da Wendy, non da lei. Lei le aveva scribacchiato un biglietto, in risposta a due lunghe lettere, accennando all’imminente viaggio in Svizzera, e un’altra lunga lettera l’aveva raggiunta lì. Era piena di notizie sulle persone che un tempo avevano ruotato intorno alla sua vita, ma le cui azioni adesso non l’interessavano più. In un primo momento aveva pensato che come risposta sarebbe stata sufficiente una cartolina illustrata, ma poi, in un momento di autocritica, aveva deciso di scrivere una vera lettera.

Lo spirito del dovere l’indusse a sedersi con carta e penna e a scrivere le prime parole di saluto, ma non l’aiutò ad andare oltre. La bizzarria di quanto stava accadendo lì, pensò, le impediva di parlarne. Raccontare di essere rimasta isolata da una valanga sarebbe stato abbastanza facile, ma poi andare avanti e dire il resto… un bambino apparentemente morto e poi risorto, la madre impazzita che aggrediva l’altro figlio, il padre che sembrava essere stato contagiato da quella pazzia, e tutti e tre che vagavano chissà dove, sulla neve, tra la nebbia… L’assurdità, l’irrazionalità di tutto ciò l’esasperava. Le lettere dovevano parlare di cose normali, come era normale la vita. Jane posò la penna con un sospiro d’irritazione.

In quel momento Douglas arrivò dal bar, e Jane si girò verso di lui, con un senso di sollievo. La lettera poteva aspettare fino a quando tutto fosse finito: allora lei avrebbe potuto narrare la storia brevemente, con ordine, in mezzo a molte banalità, possibilmente riducendo anche quella al livello di banalità. Accolse Douglas serenamente, prima di notare la sua espressione tesa, preoccupata. Lui chiese, concitato:

«Ha visto Peter?»

«Peter? No. Perché?»