Si era accorta che George cominciava a dare segni di tensione: lo tradiva il piccolo tic che appariva di tanto in tanto all’occhio sinistro, e che gli altri probabilmente non notavano. E poi beveva di più… non ostentatamente, come faceva di solito, ma con silenziosa ostinazione. E quando beveva s’incupiva. Quando Jane, dopo cena, tentò di proporre che anche le donne montassero di guardia, la notte, come gli uomini, George respinse l’idea con una bruschezza quasi rabbiosa. Disse freddamente:
«No. E non parliamone più. Decido io chi deve montare di guardia, e quando.»
Per Mandy era stato un sollievo che nessuno lo contrastasse. Se uno degli uomini l’avesse fatto, dato che lui era di quell’umore, avrebbe potuto finir male. Aveva visto George picchiare un uomo, senza preavviso, solo perché aveva sorriso di qualcosa che lui aveva detto. Eppure non era violento per natura: nessuno lo conosceva meglio di lei. Normalmente, non lo era neppure quando beveva un po’ troppo. Ma quando beveva ed era di quell’umore… allora c’era pericolo.
Alla fine, avevano deciso che i tre uomini sarebbero stati di guardia: un turno di due ore, poi quattro di riposo. A Douglas fu assegnato il primo turno, dalle dieci a mezzanotte; poi sarebbe toccato a George. Selby avrebbe avuto il turno di mezzo, dalle due alle quattro, ma per quella notte non gliene sarebbero toccati altri. Si misero d’accordo sui particolari, e Selby disse:
«Sono le dieci passate da poco. Tocca a lei, Douglas. Io andrò a letto e cercherò di dormire il più possibile, prima che George venga a chiamarmi. Non dimentichi di lasciar fuori il whisky, George.»
Tutti gli altri si alzarono. Anche Mandy si sentiva sfinita: era stata una giornata molto pesante da parecchi punti di vista. Tuttavia indugiò fino a quando rimasero solo George e Douglas. Poi disse a George:
«Vieni a dormire?»
Lui la fissò. «Dopo.» Mandy non si mosse, e lui fece, irritato: «Ho detto che vengo dopo. Vai pure.»
Mandy non se la sentiva di lasciarlo, ma non aveva scelta. Andò da Marie, in mansarda, e vide che era abbastanza tranquilla; poi scese in camera sua. La notte prima il bambino aveva dormito lì, ma Elizabeth aveva fatto portare la branda nella sua stanza. Si svestì lentamente, e lentamente disse le preghiere, anche per Stephen, e per i Deeping ed Andy, e per il vecchio Peter. Ci si abituava a tutto… anche all’idea che fossero là fuori, nella nebbia e nella neve. Rabbrividì; sedette sull’orlo del letto e si versò l’ultimo bicchierino della giornata. Vide che anche quella bottiglia era semivuota. La lampada accanto al letto guizzò. Il petrolio era quasi finito. Doveva accadere qualcosa, presto: la nebbia doveva disperdersi, dovevano sgombrare la strada per Nidenhaut. Tutta la tensione e il pericolo e l’inquietudine sarebbero finiti, e tutto sarebbe tornato come prima. Si accorse che aveva cominciato a piangere, e che le lacrime le scorrevano sulle guance ardenti. Spense la luce e si mise a letto.
Ma non si addormentò. Era ancora preoccupata per George, e ascoltava, in attesa di udire i suoi passi su per le scale. Gli scricchiolii della casa le sembrarono più nitidi: da molto tempo c’era abituata, ma adesso ognuno di essi poteva essere il passo di George sulla scala o sul ballatoio. Poteva esserlo, ma non lo era.
Pensò ad un’altra casa vecchia e scricchiolante, più di trent’anni prima. Quell’estate, quando c’erano tutti i cugini… L’aria solenne degli adulti, le prediche sulla prodigalità. La terribile notìzia di zio Lee, che Cooper aveva detto a lei per prima, come aveva sempre fatto, e allora lei aveva capito perché i cugini Mulway restavano lì tanto… erano orfani, e poveri. «Anche papà ha preso un brutto colpo, in Borsa,» aveva spiegato Cooper. «Ma non come quello di zio Lee. Loro non lo sanno, Mandy… a loro hanno detto che è ammalato. Quindi dobbiamo essere gentili con loro, ma non dobbiamo farglielo sapere, neppure sospettare. Capisci?»
Lei aveva capito. «Glielo dirai a Clyde?» aveva chiesto. Cooper aveva scosso il capo. «Non lo so. Non sono sicuro che sappia mantenere un segreto.» Una piacevole sensazione di calore: Clyde aveva un anno più di lei, ma era di lei che Cooper si fidava: era sempre stato così. Ma anche Clyde era simpatico, anche se parlava troppo e rideva troppo.
E anche i cugini erano simpatici: Hilda che aveva la sua età, Catharine, di qualche mese più giovane di Cooper, ma così timida e ingenua, e Charlie, che aveva solo sei anni. Nel complesso, era stata una meravigliosa estate: così divertente e, nonostante la Borsa e ciò che era accaduto allo zio Lee, così piena di felicità. Probabilmente c’era stato qualche litigio, inevitabile, quando Cooper e Clyde si trovavano insieme: ma lei non li ricordava. Solo le mattinate luminose, quando andavano al mare, i pomeriggi dorati tra l’erba alta del frutteto: e nei pochi giorni di pioggia, la vecchia casa che scricchiolava quando loro sei giocavano a nascondersi, e a quel gioco che aveva inventato Cooper, con tutte quelle regole complicate, un po’ come gli scacchi, un po’ come guardie e ladri, e loro giocavano in tutti i corridoi e le stanze della casa. Per tutta la sua vita, non si era mai sentita a suo agio come quell’estate, non aveva più provato quel senso di comunione e d’affetto.
E tutto era finito, disperso, sbiadito come una vecchia foto che finisce per non avere più un significato. Cooper morto su Berlino. Clyde morente in un ospedale nell’Africa settentrionale. Catharine in quell’ospedale nel Vermont, dal quale probabilmente non sarebbe più uscita, anche se avrebbe potuto vivere ancora trent’anni. Hilda che aveva appena divorziato per la terza volta e si era risposata. E il piccolo Charlie, agente di cambio, impegnato a riguadagnare il danaro perduto da suo padre, disperato e fortunato e con dieci chili di troppo, con tre figli troppo grassi e una moglie troppo magra. E lei, naturalmente.
Il legno scricchiolò di nuovo, e poi ritornò il silenzio. Guardò le lancette luminose dell’orologio, socchiudendo gli occhi. Le undici passate. Ormai, George non sarebbe salito fino dopo le due. Tanto valeva addormentarsi.
Ma il sonno sfuggiva ancora. Tornò a fantasticare dei bei tempi andati e, sebbene sveglia, era felice. Quella volta in barca… quella volta sulla spiaggia… il pic-nic tra le dune… persino la morte del vecchio Caesar, perché c’era stato il tempo di seppellirlo, e di piangere, eppure di sentire che era giusto che morisse, perché era un cane molto vecchio, e che venisse sepolto nel frutteto, con la croce di legno che avevano fatto i ragazzi, e con l’iscrizione dipinta da Cooper: «Caesar, di anni dodici, quasi tutto bulldog.»
Era mezzanotte e dieci quando tornò a guardare l’orologio. Douglas doveva essere andato a letto. Si alzò, cercò a tentoni le pantofole, trovò la vestaglia appesa alla porta. Non si prese la briga di accendere la lampada, e si avviò alla cieca verso il ballatoio. Il chiarore della lampada al piano di sotto la guidò verso le scale. Era buio, ma lei riuscì a scendere, reggendosi al corrimano della ringhiera, cercando di non far rumore per non disturbare gli altri. Nel corridoio c’era una lampada accesa, e altra luce veniva dalla porta semiaperta del bar. Mandy la spalancò ed entrò.
George stava guardando dalla finestra: le tende erano aperte. Nel sentirla, si voltò di scatto, con gli occhi gelidi, muovendo le labbra, e Mandy pensò che stesse per arrabbiarsi con lei.
«Volevo solo…» cominciò.
Non sapeva cosa dire. George la fissò per un momento, poi fece:
«Non sapevo che fossi tu, Mandy.» La sua voce era mite; lo vide rilassarsi. «Non riuscivi a dormire, tesoro?»