«Non molto bene.»
«Non voglio che questa faccenda ti deprima.» George attraversò la stanza, le cinse la vita con un braccio. «Non dimenticare che contiamo tutti su di te. Comunque, dato che sei scesa, beviamo qualcosa.»
George aveva già bevuto parecchio. Aveva la voce un po’ impastata, ed era molto insolito, in lui. Mandy disse:
«Forse non dovrei.»
George la lasciò, passò dietro al banco.
«Cosa prendi? Brandy? Gin?»
«Un po’ di gin, allora.» Lo guardò versarlo, e poi versare un altro whisky per sé. «Sto bevendo troppo, George.»
«Tutti noi beviamo troppo,» disse lui. «Tutti quanti. Forse dovremmo smetterla con questo mestiere. Cosa ne dici? Ricordi quel tale che mi voleva come pilota per l’agricoltura? Forse dovrei prenderlo in parola. Persons? Devo avere l’indirizzo da qualche parte. Aveva la sede a Bournemouth, no? Potremmo prendere un cottage nella New Forest… bellissima zona. E bere birra. Nessuno beve mai troppa birra. Cosa ne diresti, Mandy?»
«Potrebbe essere divertente.»
«Saprei cavarmela benissimo. Roba da ridere, dopo aver pilotato un Lancaster. E poi, è un lavoro utile… capisci cosa voglio dire? Al lavoro per la vittoria: due fili d’erba che crescono dove prima ne cresceva uno solo… qualcosa del genere.»
«Sì,» convenne Mandy. «Sapresti cavartela.»
«E poi un po’ di lavoro a spargere insetticidi all’estero, per non diventare troppo insulari. È il guaio degli inglesi… troppo insulari. Magari qualche mese nel Sud America. E tu verresti con me, naturalmente. Non andrei mai da nessuna parte se non con te, Mandy. Lo sai.»
Lei chiese: «Hai bisogno di me, George?»
«Se ho bisogno di te?» Lui la fissò. «Certo che ho bisogno di te. Lo sai benissimo. Vero che lo sai?»
Non in quel momento, pensò di dirgli lei: non lì, alle ore piccole, quando si sentiva solo, e sbronzo, e confuso e infelice. C’è un modo diverso di avere bisogno di qualcuno. Com’era con Cooper e con me, e persino Clyde, e i cugini. E tu… non è così che hai bisogno di me. È passato tanto tempo da quando qualcuno…
Sorrise e gli disse: «Sì, lo so.» George la stava ancora guardando. «Si dicono tante schiocchezze, nel cuore della notte.»
Lo sguardo di George la lasciò, si perse in lontananza. «O magari andare in Estremo Oriente. C’è molto da fare, da quelle parti. Ho sempre desiderato di vedere l’India. Ci mandarono laggiù con gli aerei nel ’45, e ci fecero tornare indietro la stessa settimana. Una delle solite stupidaggini che combinavano allora.»
Parlare lo rendeva felice. Erano passati cinque anni da quando aveva incontrato Parsons, un ometto agitato dagli occhi sporgenti dietro gli occhiali cerchiati di corno, che continuava a parlare della sua «visione»: e quel tema era rispuntato a intervalli, quando George era stanco, depresso, sovraffaticato. Si sentiva lusingato all’idea di poter riprendere a volare, anche se aveva passato da un pezzo la quarantina. Con l’andare degli anni, era diventato una specie di sogno complicato. Mandy ascoltò, annuì, e bevve il whisky che lui le aveva versato. Era bello che George potesse ancora vivere nel futuro, anche se era soltanto un futuro di sogno.
Lui guardò l’orologio e disse: «Dovresti tornare a letto, Mandy. Ti attende un’altra giornata di lavoro.» Ma quando lei affermò che non era stanca, George non insistette. Le riempì il bicchiere, poi riempì il proprio, e continuò a parlare.
Alle due, Mandy gli ricordò di chiamare Selby. Poi andò a letto, e li sentì parlare sottovoce per la scala. Poco dopo, arrivò George. Andò a letto, e si addormentò quasi subito. Per un po’, Mandy rimase sveglia. Caesar, pensò… e il gattino che giocava sempre con lui, e gli saltava sulla schiena, gli infilava la testolina nella bocca bavosa. Ma quale gattino? Non Franklin. Joey. Che era morto, vecchissimo, nel ’47, l’anno in cui era nata Lois… E allora non era stata una cosa triste, perché lei non lo vedeva più da tanti anni, e l’aveva quasi dimenticato. E perché c’erano tante cose per cui vivere.
Benché si fosse addormentata molto tardi, Mandy si svegliò alla solita ora. Non si sentiva particolarmente stanca. Trovò i fiammiferi e accese la lampada. George dormiva, raggomitolato sul fianco, rilassato e pacifico. Mandy bevve il solito sorso, cercò la vestaglia e le pantofole, andò in bagno, si lavò la faccia e le mani, si spazzolò in fretta i capelli e scese. Douglas la sentì arrivare e uscì dal bar. Lei gli chiese:
«Tutto a posto?»
«Sì. È stato un turno di guardia molto tranquillo.»
Mandy annuì. «Può andare a dormire, adesso. Marie scenderà fra un minuto.»
Douglas si stiracchiò. «Non penso che ne valga la pena.»
«Vado a preparare una tazza di tè.»
«Benissimo. Allora resto alzato.»
Lui la seguì in cucina, e chiacchierarono mentre lei metteva il bricco sul fuoco e cominciava i preparativi per la colazione. Douglas era un uomo simpatico: tranquillo, serio, ma d’indole bonaria, pensò, e più spiritoso di quanto apparisse a prima vista. Le raccontò alcuni aneddoti della sua attività di avvocato, veramente divertenti. Una complicata storia di un divorzio, con gli agenti che facevano irruzione nella camera da letto d’una coppia che non c’entrava affatto, la fece ridere di cuore. Ma poi lei disse:
«Quella ragazza dovrebbe essere già scesa, probabilmente si è riaddormentata. Vado a chiamarla. È capace di preparare il tè quando l’acqua bolle, Douglas?»
Lui rispose: «Preparare il tè è l’inizio e la fine della mia competenza di cuoco. Ne sono fierissimo.»
Mandy sarebbe salita direttamente in mansarda, ma quando fu ai piedi della stretta scala vide che c’era la lampada accesa, lassù. Invece di salire, chiamò senza alzare la voce.
«Marie? Stai scendendo?»
Marie disse: «Madame… può venirmi ad aiutare?»
Lei sospirò. La solita inettitudine di quella ragazza. Con un piede sul primo gradino, chiese: «Cosa c’è che non va, adesso?»
«La lampada. Non brucia bene.»
Marie rovinava tutto quel che toccava. Probabilmente era riuscita a fare in modo che lo stoppino non bruciasse regolarmente. Ma non c’era motivo per portare giù la lampada. E la luce che irradiava dalla porta aperta sembrava chiara e ferma. Un’ombra… Mandy provò una sensazione d’impaccio, ricordando l’altra ragazza, quella austriaca, e quando l’aveva sorpresa in camera insieme all’innamorato italiano. Non poteva essere così, stavolta. Ma l’ombra sulla parete, appena all’interno della stanza… immobile, sebbene lei sentisse Marie che si muoveva. Non era la sua ombra. Chi era, allora?
Che sciocchezza, pensò. Uno scherzo della luce… era l’ombra d’una persona o di qualcosa d’altro… forse un cappotto, o una sedia…? La sua vista non era molto buona, la luce non troppo forte. Era ridicolo non salire a dare un’occhiata.
Marie disse: «Viene, madame?»
E Mandy si sentì accapponare la pelle.
«Fra un minuto, Marie,» disse. «Ho qualcosa da fare.»
George si svegliò, quando lei lo toccò. Gli mormorò:
«Marie… può darsi che non sia niente, ma sono preoccupata. Pensi che…»
Lui si levò a sedere, svegliandosi di colpo, come faceva sempre. Le chiese:
«Il fucile?»
«Lo ha Douglas, dabasso.»
«Vai a prenderlo. E fai salire anche lui.»
Quando ritornarono, George era ai piedi della scala che portava alla mansarda, e guardava in alto, immoto. La porta della stanza di Marie era ancora socchiusa, e lasciava passare la luce. L’ombra era scomparsa dalla parete. George accennò loro di tacere e, chinandosi verso Mandy, disse sottovoce:
«Chiamala.»
Lei chiamò: «Marie. Porta giù la lampada. L’aggiusteremo in cucina. Sbrigati, ragazza mia. Stamattina siamo in ritardo.»