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«Servirebbe a qualcosa?» chiese Douglas. «Voglio dire, sappiamo che sono pericolosi.»

«Potremmo scoprire in che modo lo sono. Come contagiano gli altri. Fino a che punto sono vulnerabili agli stimoli fisici. Potremmo scoprire molte cose.»

George rimescolò il suo tè e lo bevve. «Ce n’è ancora, Mandy?» Poi si rivolse a Selby. «Non credo che ce ne sia la possibilità. Sono abilissimi a tenersi fuori portata.»

«Forse è possibile,» disse Selby. «Hanno l’impulso di contagiare gli altri… è quasi una specie di fame. Per farlo, sono disposti a correre dei rischi: pensate al vecchio Peter. Potremmo approfittarne. Preparare una trappola.»

Douglas chiese: «Nello chalet?»

George disse, in tono deciso: «Non nello chalet. Potrebbe andarci male.»

Selby annuì. «Fuori sarebbe meglio.»

«Preparare una trappola?» chiese George. «Con uno di noi come esca? E come? Non si può mettere qualcuno là fuori.»

«Bisognerebbe pensarci sopra.»

Douglas immaginò se stesso come esca… nella neve, circondato dal freddo grigiore informe della nebbia da cui uscivano delle figure… La paura gli serpeggiò lungo la spina dorsale. Provò un senso di sollievo quando George disse:

«Non si può fare niente, con una nebbia così fitta. Uno non saprebbe neppure dov’è.»

«Questo è vero. Però potrebbe schiarire.»

«La cosa più ragionevole,» disse George, «è restare dove siamo. Ogni volta ne abbiamo la conferma.»

«E continuiamo a perdere,» disse Selby. «Se avessimo un esemplare…»

Mandy portò la teiera. «Un esemplare…» disse. «Come può parlare così? Marie, Peter, il piccolo Andy…»

Nessuno le rispose. Poi Selby disse: «Dobbiamo pensarci sopra.» E si alzò. «Intanto, una cosa possiamo farla. Sbarrare le altre finestre della casa. Non credo che cercheranno di entrare durante il giorno, ma è una possibilità che non va esclusa.»

Le voci incominciarono circa un’ora dopo. Mandy fu la prima a udirle. La finestra della cucina era sbarrata, ma lei aveva aperto i vetri per fare uscire gli odori della cottura. Andò ai piedi della scala a chiamare, agitata, e gli altri smisero di lavorare sulle altre finestre e scesero a vedere cos’era successo. Lei disse, spaventata:

«Stavano chiamando… dalla finestra della cucina.»

«Chi?» chiese George.

«Cosa dicevano?» chiese Selby.

«Prima Marie. E poi ho sentito la voce di Ruth. E quella di Leonard. Mi dicevano di uscire.»

Si guardarono in faccia e andarono in cucina. L’unico suono era il ticchettio dell’orologio. Forse se l’era immaginato Mandy, pensò Douglas. Ma poi, mentre stavano in ascolto, dall’esterno giunsero le voci. La voce di Ruth.

«Mandy. Vieni fuori, Mandy. Non ti faremo del male. Non c’è da aver paura, Mandy. Vieni fuori.»

Selby si mosse rapidamente, senza far rumore: portò la scaletta davanti alla finestra e salì. Guardò fuori, con la testa appena al di sopra del livello del davanzale.

«Vede niente?» chiese George.

«Non mi pare. No.» E gridò: «Ruth, entri lei. Venga in casa, così potremo parlare. Le apriremo la porta principale.»

Vi fu un silenzio, poi la voce disse ancora: «Vieni fuori.» Il tono non era minaccioso né accattivante: inespressivo. Poi altre voci confuse, tra cui si riconosceva quella di Leonard: «Vieni fuori. Vieni fuori. Vieni fuori.»

«La nebbia è ancora fitta,» disse Selby. «E loro si tengono fuori tiro.» Scese dalla scaletta, dopo aver chiuso la finestra. Si sentivano ancora le voci, ma più fioche. «Dio sa cosa stanno tentando di fare… Non di comunicare, questo è certo.»

Elizabeth arrivò dal corridoio.

«Cosa succede?» domandò. «Steve ha detto che gli è parso di sentire la voce di sua madre.»

«È vero,» disse Selby. «Cercavano di convincere Mandy a uscire. Forse ci proveranno anche con lui. Fai in modo che non gli dia retta.»

Elizabeth annuì. «Ci penso io.»

«Non capisco,» disse George. «Non potevano aspettarsi che Mandy facesse quello che le chiedevano. A meno che… Potrebbero farlo solo per ridurci con i nervi a pezzi?»

«Può darsi.» Selby si strinse nelle spalle. Le voci si sentivano ancora, fievoli e lontane. «Ovviamente, è inutile cercare di parlare con loro.»

«Ne è sicuro?» chiese Mandy.

Per tutta risposta, Selby tornò alla finestra, la riaprì. Le voci erano confuse, ma si distingueva qualche parola:

«Vieni fuori… vieni fuori… fuori… vieni fuori, Mandy… fuori… fuori?»

Elizabeth chiese: «Perché Mandy?»

«Probabilmente perché pensano che sia qui in cucina.» Selby richiuse la finestra, e il suono delle voci si attuti. «Faremmo bene a finire di sbarrare le altre finestre.»

Inchiodarono le assi di traverso su tutte le finestre della parte superiore dello chalet. Le assi non bastarono per ultimare il lavoro, e per le ultime finestrelle dovettero rompere delle cassette di legno. Il risultato non era perfetto, ma sembrava efficiente. Per Douglas, quel lavoro era più deprimente che rassicurante; stavano rinforzando una prigione dall’interno. La nebbia grigia nascondeva ancora il sole, e con le assi di legno inchiodate davanti ai vetri, le stanze erano molto buie. Di tanto in tanto si udivano i richiami lontani delle voci; andavano e venivano con una bizzarra periodicità. Provò un senso di sollievo quando inchiodarono l’ultima asse attraverso il vetro smerigliato del bagno del primo piano, e George disse:

«Penso che basti così.»

Selby chiese: «E la facciata del piano terreno?»

«Non abbiamo più assi. Comunque, là c’è sempre qualcuno di guardia. Credo che un goccetto sia indicato, dopo questa fatica. Porti giù il martello e i chiodi, Douglas, per favore.»

Era un sollievo trovarsi in una stanza dove le finestre lasciavano entrare tutta la luce, anche se era la luce fioca filtrata dalla nebbia. Douglas diede un’occhiata all’orologio. Le undici e mezzo. Il lavoro aveva richiesto più tempo del previsto. Mentre George si dava da fare dietro il banco del bar, andò in salotto. Aveva visto Jane solo per pochi minuti, quella mattina, e scoprì di essere ansioso di rivederla. Lei era seduta in poltrona accanto al fuoco con un libro… lo stesso volume rilegato in pelle della sera prima. Fu questo, inaspettatamente, che lo bloccò, ricordandogli le confidenze che si erano scambiati, e che da allora non si erano più ritrovati soli.

Il blocco fu solo di un momento. Attraversò la stanza, lieto di averla trovata sola. Adesso erano tutti uniti, resi più umani e più vicini dal pericolo esterno: ma l’alleanza creata dalle confidenze intime era diversa e più forte. Per lui, la debolezza di volere e di non essere voluto. Per lei, l’apatia di non volere più niente. E per entrambi la solitudine. Jane alzò gli occhi al suo appressarsi e lui disse, sorridendo:

«Abbiamo sbarrato tutte le parti della casa, tranne questa. Adesso dovremmo essere abbastanza al sicuro.»

Naturalmente, non aveva intenzione di riprendere la conversazione della sera prima: era sufficiente che avesse avuto luogo, che fosse stata un atto di comprensione reciproca. Ma non era preparato al modo con cui Jane reagì alla sua presenza: confusione, disagio… persino disgusto.

«Sì,» disse lei. «Ho sentito i colpi di martello.»

Era una reazione minima, chiaramente voluta. Jane l’accompagnò con un debole sorriso educato, e riprese subito a leggere. Douglas rimase ritto davanti a lei, conscio di fare la figura dello sciocco. Dopo un momento disse:

«George sta aprendo il bar. Vuole bere qualcosa?»

«No.» Jane scosse il capo. «Non credo, grazie.» Alzò di nuovo gli occhi, per un attimo. «Ma lei vada pure, se vuole.»