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Era un congedo sottinteso. Douglas provò irritazione e risentimento: soprattutto al pensiero che Jane, come lui sospettava, lo ritenesse così grossolano da pensare di riaprire un argomento che lei considerava chiuso. Di fronte a quel contegno, provò l’impulso di fare esattamente quello… di dirle che era proprio il suo egocentrismo, il suo rifiuto di coesistere con gli altri, a farle apparire la vita senza scopo. Resistette alla tentazione, ma continuò a stare lì, un po’ per incertezza, un po’ per dispetto. Poi udì il suono diverso e disse, involontariamente:

«Che cos’era?»

Jane alzò di nuovo la testa. «Cosa?»

«Ascolti.» Accorse alla porta-finestra che dava sulla terrazza e l’aprì. «Ecco!»

Lei posò il libro e gli andò accanto. Douglas vide che l’indifferenza era svanita, e che Jane era agitata: ma anche lui era troppo agitato per provarne soddisfazione. Lei disse:

«Un aereo! E vicino.»

«Un elicottero.» Douglas chiamò: «George, Selby!» Fuori la nebbia turbinava, come scossa dal ritmo irregolare del rombo del motore. Disse felice: «Fa piacere sentirlo, no?»

George e Selby arrivarono dal bar, con i bicchieri in mano. Avevano entrambi l’aria contenta: George sorrideva. Uscirono sulla terrazza, e Douglas li seguì. L’elicottero era vicinissimo: non più di seicento metri, calcolò Douglas.

Selby disse: «Non è un po’ pericoloso, con questa nebbia?»

«Deve essersi diradata,» fece George. «Il pilota la sta sorvolando.» Alzò gli occhi, nella nebbia. «Lassù qualcuno mi vuol bene. E io voglio bene a lui. Sul serio.»

«Non può scendere,» obiettò Selby. «E noi, certamente, non possiamo saltare fin lassù. La situazione non migliora di molto.»

«Stanno compiendo una ricognizione,» disse George. «Penso che il bollettino meteorologico abbia annunciato che la nebbia sta per diradarsi, e che siano un po’ preoccupati per noi. Dopotutto, siamo isolati da quattro giorni.» E sorrise di nuovo. «Anche se non possono scendere, è bello sapere che pensano a noi.»

Selby guardò fuori. «Mi pare che si stia schiarendo un po’. Non molto. Ma sembra che ci sia un po’ più di luce.»

«Sì,» fece George. «È vero.»

Quando il pranzo fu pronto, ormai non c’erano dubbi: la nebbia si era diradata. La visibilità era di quindici o venti metri, e dalla parte dove si trovava il sole la luce era più intensa. L’elicottero se ne era andato da un pezzo, ma la giornata aveva un’aria più allegra. Mandy era riuscita a trasformare farina, acqua, carne salata, verdure in scatola ed erbe secche in un ricco stufato con pallottole di pasta, e George servì un Dole Pinot Noir, pesante, ottimo, scurissimo. Era molto felice, e continuava a riempire i bicchieri. Alla fine, Selby protestò:

«Se non ci andiamo piano, questo pomeriggio non saremo più in grado di combinare niente.»

«E cosa dovremmo combinare?» disse George. «Abbiamo già sbarrato tutto quanto.»

«Dovevamo fare una sortita per catturarne uno. Oppure preparare una trappola, o qualcosa del genere.»

«È inutile,» disse George. «La nebbia si sta alzando. Appena se ne sarà andata, l’elicottero tornerà. Ci tireranno fuori di qui, e allora lei potrà dare la caccia al suo esemplare. Nessuna obiezione.»

Elizabeth disse: «Qualcuno ha più sentito le voci, da quando è passato l’elicottero? Io no.»

«Si saranno allontanati, penso,» disse George. «Probabilmente si saranno spaventati a morte.»

«È quel che mi domando,» fece dubbioso Selby.

«Comunque, l’unica cosa da fare è starcene tranquilli.» George si riempì il bicchiere fino all’orlo. «Starcene tranquilli e aspettare. Il tempo lavora per noi.»

XI.

Il sollievo dimostrato era, a rigor di logica, una misura della precedente tensione. George era stato sottoposto a una tensione maggiore di quanto fosse apparso, e Selby se ne rendeva conto soltanto ora: e questo spiegava la sua euforia. Dopo il pranzo, Mandy portò il tè in salotto, e George propose di bere del brandy. Nessun degli altri accettò, ma lui se ne versò una dose abbondante. Aveva il volto arrossato dal liquore già bevuto, ma per il resto sembrava normale. Doveva avere un’ottima resistenza all’alcol, e probabilmente era il tipo che crollava alla fine, di colpo.

Insieme a quel sollievo lievemente ebbro vennero altre cose. George cominciò a parlare dei figli di Selby, della possibilità che fossero in pensiero per i genitori. Selby scrollò le spalle.

«Credo che non abbiano detto loro nulla. Sono tutti e due in collegi diretti da gente sensata. Abbiamo mandato loro delle cartoline il giorno prima di rimanere isolati. Potremo telefonare a tutti e due non appena arriveremo a Nidenhaut.»

George lo fissò. «E del resto, non è che vi vedano molto, no? Quanti anni hanno, fra l’altro?»

«Cassie undici. Mike otto.»

«Otto? E da quanto tempo è in collegio, quel poverino?»

«Da settembre.»

«Cristo! Mi vien male a pensarci.»

Selby disse, in tono conciliante: «Siamo andati a vedere la scuola, prima di mandarlo. Anzi, abbiamo escluso quella dove avevo studiato io perché ci è sembrata un po’ troppo spartana. Questa è più comoda. E simpatica, con gente pure simpatica. Mike è sistemato bene. È stato contento di venire a casa per Natale, ma poi è stato anche contento di ritornarci.»

«Anche lei è stato mandato in collegio a otto anni, immagino.»

«Sì.»

«E le piaceva?»

«Ricordo di avere pianto un po’, le prime sere. Poi mi piacque.»

«E perché ha dovuto farlo lei, deve andar bene anche per il bambino. Non è così?»

«Non è esattamente il modo in cui lo direi io.»

«Avanti, sotto la macina, in modo che sia pronto per la vita. La scuola preparatoria e la public school. E cosa conta quel che gli succede, purché venga colato nello stampo giusto?»

Selby disse: «L’infanzia può essere dura in molti modi diversi. Lei dovrebbe saperlo.»

«Io non sono stato impacchettato e spedito via a otto anni. Immagino quello che avrebbe detto mia madre, se qualcuno ci si fosse provato.»

«Ciascuno la pensa a modo suo. Il mondo è bello perché è vario, no?»

George disse, disgustato: «Vario? Dov’è la varietà in una serie di copie a carta carbone?»

«Be’, allora tra una specie e l’altra.» Selby gli sorrise, disinvolto. «Tra la sua specie e la mia.»

Aveva fatto quell’osservazione per pura curiosità che venne soddisfatta dal rossore più cupo sulla faccia di George. Era una scortesia, lo riconosceva, ma c’era stata la provocazione. E se ci si votava alla mimesi protettiva, non era una buona idea rispondere con antislogan alle grida tribali. Il senso delle convenienze avrebbe dovuto impedirlo. Ma non era così, naturalmente. Un uomo poteva rinnegare la propria classe, la propria fede, il proprio paese, ma quel marchio di fabbrica se lo portava addosso per tutta la vita.

Selby continuò, con l’intenzione di placare George: «In realtà, sono contrario all’idea di spedire i bambini in collegio, indiscriminatamente. Ce ne sono certuni che non si dovrebbero mai mandare, e certe scuole cui non si dovrebbe mai affidare un bambino. E in una società di tipo diverso, sarebbero diversi anche i valori. Bisogna fare del proprio meglio con quel che si ha a disposizione. Io sono un tipo pratico, non un idealista.»

E questo era vero, pensò, e ragionevolmente onesto. Era piacevole migliorare la sorte umana, per quel po’ che si poteva: ma non era un impegno ardente. In quel senso, il suo lavoro aveva una posizione periferica nella sua vita, non centrale. Qual era l’elemento centrale? si chiese Selby. Elizabeth? Oppure vivere bene… o stimare se stesso? Era un problema noioso, decise, e lasciò perdere.