«Avevo spesso gli incubi,» disse Diana, «quand’ero bambina. O meglio, era sempre lo stesso. Un vecchio, e io non potevo gridare, cercavo di scappare ma i miei piedi non si muovevano. È un incubo comune a molta gente, no?»
Selby annuì. «Dov’era, il tuo vecchio?»
«In un giardino. Con il muro intorno.»
«Il mio era in un bosco. Penso che fosse anche peggio, quando ti raggiungeva. Invecchiato di vent’anni.»
«Perché la gente ha questi incubi?»
«Per paura, credo. E per suggestione. E i genitori che mettono in guardia i bambini contro pericoli che non capiscono.» Selby la guardò. «Hai freddo? Vuoi rientrare?»
Diana scosse il capo. «No. Preferisco star fuori.» Gli posò la mano sul braccio. «Presto sarà finita, no?»
«Molto presto.» Diana era ancora poco più di una bambina indifesa. Provò per lei un impulso protettivo, immune dal desiderio. «Entro sera, la nebbia dovrebbe sparire. Probabilmente ci manderanno subito l’elicottero. Molto probabilmente stanotte saremo a Nidenhaut, a ballare da Putzi.»
«Sarebbe divertente.»
Diana gli teneva ancora la mano sul braccio; Selby la batté delicatamente con la sua. All’improvviso la nebbia arrivò a fredde folate, smentendo beffardamente le sue parole. La mano di Diana si mosse, strinse la sua. In un attimo, la nebbia li circondò, una nube che impediva di vedere a un passo di distanza: e la ragazza sembrava un fantasma, benché si tenessero per mano.
Lui disse: «Credo che faremmo meglio a rientrare.»
Diana non rispose, si mosse bruscamente verso di lui. Il viso uscì dal grigiore: non provocante, spaventato. Selby la baciò, e la sentì rabbrividire sotto il pesante cappotto. Lei disse, sottovoce:
«Ho paura.»
«Non devi averne.» La baciò di nuovo, dolcemente. «È solo una nube. Guarda, si sta già diradando.»
Si diradò molto rapidamente, e il grigiore plumbeo ridiventò perlaceo. La visibilità era la stessa di prima, forse maggiore. Selby la lasciò, le tenne solo una mano sulla spalla, per farla girare verso la neve. E il bambino che stava là, immobile, a guardarli.
«Andy!»
Fu un’esclamazione d’orrore. Ma non c’era niente di orribile in lui, pensò Selby. Sembrava infreddolito, e la faccia e le mani nude erano bluastre. Come Kay, nel palazzo della Regina delle Nevi. E anche lì c’era qualcosa che si poteva toccare… un frammento di ghiaccio nel cuore, che si poteva sciogliere, un lieto fine come in tutte le fiabe migliori? Andy era a una dozzina di metri dalla terrazza. Selby si sporse e lo chiamò, senza alzare la voce:
«Andy, vieni su, da bravo.»
Esitante, quasi riluttante, il bambino avanzò di un passo. I suoi occhi rimasero fissi su Selby. Diana mormorò, sottovoce:
«Credi che…»
«Zitta,» le disse. «Non spaventarlo.» E parlò di nuovo al bambino: «Vieni a parlare con noi, Andy. Non ti faremo niente.»
Il bambino non si mosse. Selby continuò a parlargli, sottovoce, dicendogli di avvicinarsi alla casa, e lui restò lì, a guardare: sembrava stesse in ascolto. Selby si sentì più sicuro. Forse non erano uniti come era parso… un errore d’osservazione. O forse, incredibilmente, era una specie di malattia che aveva fatto il suo corso nel bambino, e adesso stava passando. Fosse vero o no, se lui fosse riuscito a catturare il bambino, a esaminarlo… Aveva detto che voleva un esemplare. E uno stava là, solo, quasi a portata di mano.
Mormorò a Diana: «Tu non ti muovere. Cercherò di prenderlo.»
«Non è pericoloso?»
Selby non le rispose, ma si avviò verso i gradini che, in fondo alla terrazza, portavano a terra. Camminava lentamente, con la mano guidata dalla balaustrata, l’attenzione concentrata sul bambino. Di tanto in tanto lo chiamava sottovoce. Aveva paura che da un momento all’altro si spaventasse e fuggisse: invece era ancora là. Selby arrivò alla scala e scese, guardingo.
Avanzò sulla neve smossa, con crescente sicurezza. Il bambino non accennò a venirgli incontro, ma neppure indietreggiò. Sei metri. Gli disse: «Hai tutta l’aria di aver bisogno di un buon pasto caldo, Andy, ragazzo mio.» Cinque metri. «E di scaldarti un po’ al fuoco.» Tre metri. «Non credo che…»
La testa del bambino si mosse leggermente: non stava guardando Selby, ma qualcosa dietro di lui. Selby si girò lentamente, preoccupato, anche in quell’apprensione momentanea, di non spaventare Andy. Prima vide Diana. Lei l’aveva seguito giù per i gradini e adesso era ai piedi della scala, presumibilmente con l’intenzione di aiutarlo, ma lui imprecò sottovoce contro quella stupidità. Poi vide le figure che svoltavano l’angolo della casa, alle spalle di lei, e le gridò, dimentico di tutto, preso solo dalla necessità di avvertirla:
«Diana! Torna indietro! Subito!»
La vide girare, mentre cominciava a correre verso di lei. Diana urlò, e poi le furono addosso. Deeping e Peter la sollevarono mentre si dibatteva invano, e la portarono via, attraverso il varco fra lo chalet e i capanni. Selby li rincorse, scivolando sulla neve gelata. Era convinto che la distanza tra loro si stesse riducendo, ma le figure diventavano più indistinte. La nebbia tornava ad addensarsi, il cielo si oscurava. Quelli girarono intorno all’angolo dello chalet, e Selby cercò di correre più forte. Svoltò, e una figura uscì dalla nebbia e lo urtò con violenza, facendolo cadere sulla neve.
C’era una sola figura che stava scomparendo, quando si rimise in piedi. La inseguì, ma la caduta l’aveva lasciato senza fiato, e una fitta dolorosa gli trafiggeva il fianco. Era da molto tempo che non correva più. Giunse all’altro angolo, e dovette appoggiarsi al muro. Non c’era niente e nessuno da vedere… solo la nebbia. Dopo un momento, si raddrizzò e proseguì, zoppicando. Udì delle voci, e riconobbe quella di George. Si rese conto di colpo del pericolo che correva, lui o chiunque altro si trovasse isolato, lontano dalla protezione della casa.
«Aspettatemi… arrivo!» gridò, e lo sforzo lo riempì di trafitture dolorose. Riuscì comunque a procedere al piccolo trotto, girò l’ultimo angolo e si trovò direttamente sotto la terrazza. Sentì delle voci, lassù, il cigolio delle assi di legno mentre quelli si muovevano. Disse ancora: «Restate lì. Arrivo.»
Erano tutti sulla terrazza e lo guardavano salire i gradini. Tutti quelli rimasti. Selby si sentiva nauseato, esausto, e si vergognava di se stesso.
George chiese: «Cos’è stato tutto quel chiasso? E Diana? Dov’è Diana?»
«L’hanno presa.» E guardò Jane. «È stata colpa mia.»
XII.
Jane non poteva crederlo, non poteva accettare quelle parole e ciò che significavano. I Deeping, sì, e i due servitori, ma non Diana. Era un’idea mostruosa e impossibile. La ricordò a Natale, in casa dei genitori, un po’ sbronza di champagne, che la esortava: «Stai diventando una vecchia lumaca senza iniziativa, Jane. Hai bisogno di andar via, di cambiare aria. Vai in Svizzera o da qualche altra parte. Se hai bisogno di compagnia, verrò io. Posso prendermi qualche giorno di ferie, e non sono troppo orgogliosa per accettare l’invito.» No, non poteva essere vero. Ma vedeva Selby, per metà impolverato di neve, che si stringeva una mano sul petto, vide che la guardava con aria distrutta.
George chiese: «Cos’è successo?» Aveva un tono perentorio. «Perché siete usciti di casa?»
Selby lo spiegò. Quando ebbe finito, George disse:
«Maledetto stupido.»
Selby annuì, depresso. «Lo so. Ma è inutile parlarne, adesso. Ha il fucile? Andiamo a vedere se riusciamo a trovarla.»
La nebbia avvolgeva la casa: l’altra estremità della terrazza era appena visibile. Jane vide che George si guardava intorno: scosse il capo, impercettibilmente, ma disse:
«Va bene, andiamo. Lei se la sente? Venga, Douglas.» Si rivolse alle donne. «Entrate e chiudete la porta. Se succede qualche guaio, rompete il vetro di una finestra e chiamateci.»