«Vorrei sapere come possiamo fermarli. Sono nove, contro noi quattro. Due sono bambini, lo so, ma non migliora la situazione.» Fissò il fucile che George teneva imbracciato. «Le sono rimaste delle cartucce?»
«Una sola,» disse George. «In canna. Il colpo che non ho sparato. Le altre sono rimaste di sopra.»
«Sì,» disse Selby. «L’avevo immaginato.»
«Dobbiamo pensare,» disse George. «Con calma, meticolosamente. Il prossimo errore potrebbe essere l’ultimo.»
Jane disse: «Ci lasceranno il tempo di pensare?»
«Non hanno fretta,» rispose George. «Ci hanno bloccati qui, e mancano otto ore all’alba. E fino ad ora le loro azioni sono sempre state compiute a lunghi intervalli. Abbiamo il tempo per pensare. Ma dovremo farne buon uso.»
Era vero, tutto vero, pensò Selby. C’era disperatamente bisogno di pensare. Ma lui pensava a Elizabeth e la sua mente era sconvolta dalla sofferenza.
Dopo un po’ comprese che per lei doveva essere finita, e il dolore divenne meno acuto, sebbene ci fosse ancora il pensiero bruciante di averla perduta. E la collera. Era freddamente deciso alla purificazione, alla vendetta, alla distruzione. Aveva scelto di studiare medicina perché sua madre era morta di cancro quando lui aveva diciassette anni. E questa volta aveva provato qualcosa di simile. Ma questo era più immondo del cancro, e suscitava un odio più rabbioso, più personale. E più gelido. Era importante pensare con chiarezza, senza lasciarsi sopraffare dai sentimenti.
Douglas stava esponendo il suo piano di attirare giù alcuni di loro e di isolarli dagli altri, dividendo le forze dei nemici come quelli avevano fatto con loro. Sembrava un’idea fiacca, irrealizzabile. Selby disse, senza preoccuparsi di apparire scortese:
«Sentite, ci sono soltanto due modi per cavarcela. Uno è finirli in un modo o nell’altro. L’altro è assicurarci che non stabiliscano un contatto con il mondo esterno prima che possiamo farlo noi. E questo, naturalmente, comporta la necessità di sopravvivere per il resto della notte.»
«Be’, sì,» fece Douglas. «Ma se dobbiamo…»
George disse: «Ci ho pensato anch’io… a finirli. Non abbiamo molto, ma abbiamo il mazout.»
Douglas e Jane lo guardarono senza capire. Selby chiese:
«Un incendio? E servirebbe a qualcosa?»
«Può darsi. Credo che qualunque altra soluzione sarebbe inutile.»
Jane fece: «Il mazout?»
«Il gasolio,» disse George. «Per il riscaldamento centrale. Millecinquecento litri, l’ultima volta che ho guardato.» Fissò Selby, ignorando gli altri due. «Una bella fiammata.»
«Dov’è il serbatoio?» chiese Selby.
«In quella piccola stanza, a destra della porta della cantina.
Il pensiero lo eccitò. «Partirebbe con un bel botto.»
«Partirebbe tutto la chalet. Un vero falò.»
«Vuole appiccare un incendio quaggiù?» chiese Douglas. «E poi? Uscire fuori e aspettare i soccorsi.» La prospettiva parve rasserenarlo. «Purché i soccorsi arrivino domani.»
Selby disse: «Anche se il fuoco si appicca in fretta, loro avrebbero la possibilità di uscire, no? Le finestre sulla parte davanti dello chalet non sono sbarrate, e c’è la porta principale.»
«Se fossero di sopra, una possibilità l’avrebbero,» disse George. «Ma se fossero qui sotto…»
«E come li facciamo scendere?»
«Verranno, prima o poi. Dovranno venire. Non correranno il rischio di lasciarci fino a domattina. Verranno un’ora circa prima che albeggi, penso.»
«E noi dobbiamo aspettare fino a quel momento?» chiese Selby. Ci pensò, e il pensiero gli diede un senso di disgusto. «Non è un po’ rischioso?»
«È sufficiente che li aspetti uno di noi. Bisogna preparare una striscia di stracci intrisi di gasolio. Il serbatoio è dall’altra parte della scala. Bisognerà appiccare il fuoco quando loro sono tutti quaggiù.»
«E gli altri di noi?»
«Dovranno uscire in anticipo. Allontanarsi dalla casa. Se qualcosa andasse male, dovranno essere lontani… così potranno eventualmente avvertire i soccorritori, se arrivassero nel frattempo.»
Era una proposta ragionevole, pensò Selby. Era tutto ragionevole. Ma richiedeva molto coraggio da parte dell’uomo che sarebbe rimasto. Avrebbe dovuto attendere, probabilmente per un paio d’ore, che loro venissero; e calcolare con un tempismo perfetto il momento di appiccare il fuoco, e poi riuscire a fuggire. Se era possibile. Le probabilità non sembravano molto favorevoli.
Disse, vivacemente: «Potrebbe andare. Non riesco a pensare ad altre soluzioni. Lei conosce i dintorni, George, quindi penso che dovrebbe guidare il gruppo principale.»
George lo fissò. Nella luce della lampada, il suo volto era cupo.
«Andrete voi tre,» disse. «Io resto. Ritengo di avere il diritto di dar fuoco a casa mia.»
Selby immaginò George che ascoltava e attendeva nell’oscurità. Non era questione di eroismo. Ogni uomo aveva le sue paure, e le circostanze colpivano in modi diversi, in misure diverse. Cercava un argomento valido per dirlo, quando Douglas disse:
«Tiriamo a sorte. Noi tre. È la cosa più semplice, credo.»
Lo sguardo di Selby incrociò quello di George, ed entrambi convennero che questo, almeno, era fuori questione. Potevano avere tristi presentimenti, l’uno sul conto dell’altro, ma nessuno dei due era disposto a lasciare quel compito al terzo. George disse, a voce piuttosto alta:
«Mettiamo le cose in chiaro. Qui comando io. Abbiamo bisogno di lei, Douglas, per pensare a Jane. E abbiamo bisogno di Selby, perché spieghi a chiunque arriverà in volo che razza di situazione si è creata quassù. Crederanno a un medico, mentre di me o di lei direbbero che siamo ammattiti.»
Douglas ribatté: «Capisco il motivo per mandare via Selby. Ma noi due possiamo tirare a sorte per decidere chi deve restare.»
Parlava con l’ostinazione che un uomo debole scambia per forza, in se stesso, e perciò vi si aggrappa. Era assurdo, pensò Selby, offendere qualcuno in un momento simile, ma una simile ostinazione, tanto in Douglas che in George, non poteva venire ignorata. E poteva rovinare tutto. Disse a George:
«Ha con sé i dadi?»
Douglas chiese, incredulo: «I dadi?»
Un lieve sorriso increspò un angolo della bocca di George. Aveva capito. Potevano eliminare abbastanza facilmente Douglas, che era un giocatore inesperto, e poi sistemare la faccenda tra loro.
«Li porto sempre con me,» disse. Si tolse i dadi, nella piccola custodia di pelle, dalla tasca interna. «Non ho il bussolotto, però. Andrò a cercare qualcosa.»
«Che sciocchezza,» osservò Douglas. «Sarebbe molto più semplice tirare a sorte.»
«Però sarebbe meno divertente,» disse Selby. «E non c’è fretta. Li sentiremo, se cominciano a spostare l’armadio.»
«Per me è ridicolo.»
Ma dopo aver protestato, pensò Selby, Douglas non era troppo scontento. Era estremamente importante che vincesse: aveva un modo per cavarsela con onore.
George tornò indietro dicendo: «Ho trovato questo.» Era un bicchiere di plastica blu, molto malridotto. «Non è bellissimo, ma può andare.» Tolse i dadi dall’astuccio. «Assi in su, re a lato.»
George vinse il diritto al primo tiro, con un re contro due fanti. Tirò e poi passò a Selby.
«Due coppie.»
Erano assi e dieci, con un nove. Selby tolse il nove e lo lanciò allo scoperto. Venne una donna. Passò il bicchiere a Douglas.
«Full. Donne e dieci.»
Douglas prese il bicchiere, vi guardò sotto, esitò e, con un sogghigno ironico, tirò fuori i dadi. Lasciò i due assi e tirò gli altri tre. Poi passò il bicchiere a George, senza guardare sotto.
«Quattro assi,» disse.
George alzò il bicchiere. C’erano un asso, un dieci, un nove. Disse concisamente. «Che jella,» agitò i dadi e li lanciò. Dopo aver guardato, passò a Selby. Il suo sguardo era fisso, immoto.