Alla sua destra, una grande ondata di fiamma crepitò contro il fianco della casa. Chiamò George, lo sentì rispondere dall’interno.
«Si allontani! Tutto a posto!»
Uno sparo risuonò, assordante, mentre Selby arrivava nel corridoio, e vide George in cima alla scala, con il fucile puntato verso il basso.
«Gli chiuda la porta in faccia!» urlò Selby. «Non possiamo perdere tempo.»
L’armadio, ancora rovesciato sul fianco, era stato spinto sulla destra della porta. Selby cominciò a spostarlo mentre George chiudeva l’uscio, sbattendolo. Non riuscì a smuoverlo. Poi George venne ad aiutarlo e, con un cigolio di protesta, il pesante mobile cominciò a spostarsi. Mentre lo stavano ancora spingendo, la porta si tese, contro il leggero catenaccio. Ma il catenaccio resse, e un attimo dopo l’armadio era a posto, incastrato contro la porta. Si fermarono, ansanti.
Il pannello superiore della porta si gonfiò un poco sotto la pressione, ma la parte inferiore era bloccata dall’armadio. Selby udiva il crepitio lontano delle fiamme, e il fumo cominciava ad arrivare dal salotto, attraverso il corridoio. Sottili spire di fumo uscivano intorno alla cornice della porta. La parte superiore si incurvò di nuovo, e il fumo era più chiaro.
Poi cominciarono le voci.
Diana. «Selby! Fammi uscire, Selby. Ti prego, ti prego!»
Ruth, Marie nel suo inglese smozzicato, e più lontane le voci dei bambini che imploravano aiuto. Ed Elizabeth. Selby si girò in preda all’angoscia e alla nausea.
«Andiamocene,» disse.
Passando davanti alla porta aperta, videro che l’altra parte del salotto era già una fornace. Il fumo, riversandosi nel corridoio, li prese alla gola, soffocandoli. Prima che George avesse aperto la porta principale, Selby si accorse che faticava a respirare. Uscirono, e l’aria della notte trapassò loro i polmoni, gelida e tagliente.
Selby s’era ricordato di prendere i loro cappotti e gli stivali dal corridoio, mentre George apriva la porta. Consegnò a George il suo, li indossarono. Nessuno dei due se la sentì di rischiare di rimanere temporaneamente indifeso mentre infilava gli stivali. Si fermarono a pochi metri dalla porta e guardarono le fiamme che salivano, prima dietro la finestra del bar, e poi ondeggiavano nel corridoio, e alla fine, in un’orribile corona, sopra il tetto della casa.
George disse: «Non avrei dovuto sparare. Aveva ragione lei. La soluzione consisteva nel chiudere loro la porta in faccia.»
«Non ha importanza.»
George scosse il capo. «Avrebbe potuto averne.»
Le fiamme erano dovunque davanti a loro, adesso, e l’aria ruggiva della loro furia implacabile. Il calore li investì, li costrinse ad arretrare.
«Ho visto uno di loro che saliva le scale,» disse George.
Fissò la fontana di fuoco.
«Era Mandy.»
XVII.
Il freddo li avvolgeva, un’esalazione delle tenebre della notte, della neve scricchiolante e crudele. La crosta si spezzava sotto ai loro piedi, ed ogni passo avanti era uno sforzo, una tortura. Continuarono a camminare per molto tempo, senza parlare per risparmiare le energie, fianco a fianco, ma senza toccarsi. La luna era ancora librata dietro le strisce di nubi alte, e gettava una luce appena sufficiente per permettere loro di vedere dove andavano. Il dosso della montagna, verso il quale erano diretti, era visibile solo come un settore più scuro del cielo.
Lei disse, finalmente: «Devo riposarmi. Almeno un momento.»
«No. Deve continuare a muoversi. Deve.»
Selby o George sarebbero stati perentori, ma sebbene fosse stanca e gelata, Jane sentì qualcosa d’altro, nella voce di Douglas. Una preoccupazione, una supplica. La scosse come, in quel momento, non avrebbe potuto farlo un comando brusco. Si costrinse a continuare. Non c’era modo di sapere che ne era stato o che ne sarebbe stato di George e di Selby. L’unica certezza era che rimanevano loro due, che l’uno non doveva abbandonare l’altro.
Douglas cominciò a parlarle, con voce che talvolta ansimava. Lo faceva per aiutarla a continuare, pensò Jane. Le parlava soprattutto della sua famiglia: aveva due sorelle sposate, un fratello ufficiale di carriera, attualmente di stanza in Germania. Ne parlava come di persone simpatiche, e come se lei dovesse conoscerli, un giorno. La mente di Jane sfiorò i sottintesi di quelle parole, ma tornò subito alla stanchezza ed al freddo.
«Non posso,» disse. «Ho bisogno di riposare…»
Si fermò, tremando: si sentiva vacillare. Douglas le venne accanto, la sorresse. La cinse con le braccia, e lei si abbandonò. Pensò, stupita, che era più forte di quanto avesse creduto, se riusciva a sostenerla così. E il suo calore era un conforto. Da quanto tempo non si era più resa conto, come adesso, della gioia della vicinanza di un altro corpo umano.
Dopo un po’, fece appello alla propria forza di volontà e disse che poteva proseguire. Continuarono come prima, ma il dosso della montagna era molto più vicino, e nascondeva un arco di cielo più ampio, sulla loro sinistra. Furono costretti a scendere più a valle, e arrivarono a un punto in cui il suolo, dall’altra parte, scendeva a strapiombo. Poco dopo, raggiunsero il mucchio di neve e di detriti lasciato dalla valanga, e non poterono proseguire.
Jane si appoggiò a un muro di neve, e Douglas la cinse con le braccia, come prima. Lei aprì il vecchio impermeabile che le aveva dato George e coprì anche lui, attirandolo più vicino. È la desolazione, si chiese, che spinge la gente ad amarsi? La pressione del freddo e della paura e della solitudine? Ma c’era qualcosa di più. Una comprensione, almeno, un’ammissione. Lei aveva avuto paura, e si era sentita sola, con il cuore raggelato, e non l’aveva saputo. E c’era un cercarsi. Si tennero stretti, confortandosi l’un l’altro.
Douglas la convinse a camminare di nuovo, e poi riposarono, abbracciati, e si alzarono e ripresero a camminare. Il tempo passò in questo modo. Lentamente, ma passò. Stava riposando, quando lui disse:
«Che cos’è?»
«Cosa?»
«Guarda.»
Lei si voltò, e vide il bagliore nel cielo. Il fianco della montagna impediva loro di vedere cosa fosse, esattamente, ma lassù c’era un rosseggiare, un fulgore contro cui spiccavano i contorni della roccia.
«La casa,» disse Jane.
Non era necessario parlarne. Tornarono indietro. Il bagliore divenne più forte; e alla fine poterono vederlo chiaramente, il lontano rogo fiammeggiante che serbava ancora i contorni dello chalet. Jane pensò a Diana, e fu lieta di aver provato angoscia prima, per lei. Adesso non provava più nulla.
Camminarono, e riposarono, e camminarono, mentre passavano le lente ore della notte. Il faro fiammeggiante sulla montagna si spense e alla fine anche le braci si smorzarono. Poi ci fu solo la luce fioca della luna, un mondo buio in cui, infinitamente stanchi e raggelati, erano consci di se stessi e l’una dell’altro. Niente di più. La voce che li chiamava attraverso quella distesa gelida fu dapprima irreale, un grido in un sogno. Ma insistette e divenne più forte.
«Jane! Douglas! Dove siete?»
La voce di George. Fu Douglas a rispondere.
«Siamo qui!» gridò. «Quassù.»
«Bene. Credo di potermi orientare. Ma continui a gridare.»
Douglas gridò: «Qui… da questa parte…» Jane l’afferrò per un braccio.
«Sei sicuro…?»
«È George,» disse lui.