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Stringendo i denti si chinò sul cadavere, e si accinse a eseguire la sua ispezione.

Mezz’ora dopo aveva finito, e se ne stava in posizione eretta con due pellicole metalloidi tolte dall’interno delle guance del cadavere: circuiti di comunicazione sicuramente sofisticati quanto i suoi.

Sfregò le mani nella sabbia, ritornò all’auto e guidò a ritroso alla luce della luna ormai al tramonto. Arrivò nella buia città di Dasai, girò a sud verso la strada costiera, e un’ora più tardi era a Fejo.

L’atrio dell’Hotel des Tropiques era illuminato soltanto da grandi sfere pallide, verdi e azzurre. Pochi gruppi di persone erano seduti a parlare e sorseggiare un drink; accompagnato dal sommesso mormorio delle loro conversazioni Keith si diresse all’ascensore che lo portò alla sua stanza.

Entrò con cautela. Tutto sembrava in ordine. Le due valige non erano state manomesse; sul letto le coperte erano state ripiegate all’indietro, e un pigiama di seta purpurea era stato preparato per lui.

Prima di dormire, Keith sfiorò un altro interruttore nella dentiera, e il radar montò la guardia. Qualunque movimento all’interno della stanza l’avrebbe destato. Sentendosi temporaneamente al sicuro si addormentò.

Mancava un’ora alla prima seduta del Grande Parlamento, quando Keith fece visita a Vasif Doutoufsky che strinse le labbra a rosetta. «Prego. Non è conveniente che sembriamo amici intimi.»

Keith sfoggiò lo sgradevole ghigno da lupo. «Niente paura.» Mostrò i congegni che aveva preso dal corpo del presunto Tamba Ngasi.

Doutoufsky guardò incuriosito.

«Questi sono circuiti di comunicazione.» Keith li gettò sulla scrivania. «Si sono guastati, e non posso presentare rapporto. Devi farlo tu per me, e fornirmi le istruzioni.»

Doutoufsky scosse la testa. «Questo non doveva essere il mio compito. Non posso compromettermi, i Cinesi sospettano già dei miei rapporti.»

E così, pensò Keith, Doutoufsky faceva il doppio gioco. I Russi sembravano fidarsi di lui, cosa che Keith riteneva alquanto ingenua. Meditò un momento, e poi infilò una mano nella borsa e ne trasse una scatoletta piatta. L’aprì e tirò fuori un piccolo oggetto di legno che somigliava a uno spicchio d’aglio. Lo lasciò cadere davanti a Doutoufsky. «Ingoialo.»

Doutoufsky sollevò lentamente gli occhi, corrugando la fronte in una lamentosa protesta. «Ti comporti in modo molto strano. Ovviamente non ingoierò questo oggetto. Che cos’è?»

«È un legame che unisce le nostre vite,» disse Keith. «Se vengo ucciso, uno dei miei organi emetterà un impulso che farà detonare questo oggetto.»

«Tu sei pazzo,» borbottò Doutoufsky. «Farò rapporto in questo senso.»

Keith si mosse in avanti, posò la mano sulla spalla di Doutoufsky, gli toccò il collo. «Sai che posso far smettere il battito del tuo cuore?» Inviò una scarica elettrica nelle unghie di rame e argento.

Doutoufsky parve più perplesso che allarmato. Keith emise una corrente più forte, abbastanza da far trasalire qualunque uomo. Doutoufsky si limitò a liberarsi dalla stretta di Keith. Le sue dita afferrarono il polso di Keith. Erano fredde, e potenti come tenaglie di acciaio. E nel bracco di Keith si propagò un doloroso colpo di corrente.

«Sei un idiota,» disse Doutoufsky disgustato. «Porto armi di cui non sai nulla. Vattene subito, o te ne pentirai.»

Keith se ne andò in preda a una costernazione prossima al malessere. Doutoufsky era stato migliorato. La sua rotondità celava senza dubbio grandi fasce di tessuto elettrogenerativo. Aveva commesso un errore grossolano, e aveva fatto la figura dello sciocco.

Suonò un gong; altri Parlamentari gli sfilarono accanto. Keith tirò un profondo respiro, ed entrò con sussiego nell’echeggiante sala a pannelli rossi, oro, e neri. Un usciere lo salutò. «Il tuo nome, signore?»

«Tamba Ngasi, Provincia di Kotoba.»

«Il tuo posto, Eccellenza, è il numero ventisette.»

Keith si sedette, ascoltando senza interesse l’invocazione. Che cosa fare con Doutoufsky?

Le sue riflessioni vennero interrotte dall’apparizione in tribuna di un uomo pesante, dalla faccia a luna piena, in una semplice veste bianca. La pelle era quasi nero azzurra, le palpebre scendevano pigramente sulle orbite sporgenti, la bocca era grande e carnosa. Keith riconobbe Adoui Shgawe, Premier di Lakhadi, benefattore dell’Africa.

Parlò con voce risonante di banalità e considerazioni di carattere generale, facendo molti riferimenti alla Solidarietà Socialista. «Il futuro di Lakhadi è il futuro dell’Africa Nera! Mentre osserviamo questo salone magnifico, e notiamo i colori della raffinata decorazione, possiamo forse evitare di restare impressionati dall’esattezza del simbolismo? Rosso è il colore del sangue, che è lo stesso per tutti gli uomini, ed è anche il colore del Socialismo Internazionale. Nero è il colore della nostra pelle, ed è nostro orgoglioso dovere assicurare che la forza e il genio della nostra razza siano rispettati su tutto il globo. Oro è il colore del successo, della gloria, e del progresso; e dorato è il futuro di Lakhadi!»

Il salone risuonò di applausi.

Shgawe passò a problemi più immediati. «Seppure spiritualmente ricchi, siamo in un certo senso impoveriti. Il Compagno Nambey Faranah,» fece un cenno col capo verso un uomo tozzo dalla faccia quadrata in completo nero, «ha presentato un programma interessante. Suggerisce che un programma di immigrazione attentamente pianificato potrebbe garantirci un nuovo e prezioso assetto nazionale. D’altro canto…»

Il Compagno Nambey Faranah balzò in piedi e si girò a fronteggiare l’assemblea. Shgawe levò una mano per trattenerlo, ma Faranah lo ignorò. «Ho conferito con l’Ambasciatore Hsia Lu-Minh della nazione amica, la Democrazia Popolare Cinese. Ha fornito la più valida rassicurazioni, e userà tutta la sua influenza per aiutarci. È del parere che un certo numero di abili tecnici agricoli possano essere di incommensurabile beneficio per il nostro popolo, e possano accelerare l’orientamento politico delle apolitiche regioni arretrate. Avanti verso il progresso!» Mugghiò Faranah. «Ben venga la possente avanzata delle razze di colore unite abbracciate sotto il rosso stendardo del Socialismo Internazionale!» Guardò per il salone in attesa dell’applauso, che fu però scarso e svogliato. Si sedette bruscamente. Keith lo osservò con nuova, cupa speculazione. Il Compagno Faranah era forse un Cinese migliorato?

Adoui Shgawe aveva pacatamente ripreso la sua arringa. «…qualcuno ha messo in dubbio la praticità di questa mossa,» stava dicendo. «Amici e compagni, vi assicuro che per quanto leali e amichevoli siano le nazioni nostre sorelle, non possono offrirci il prestigio! Più ci affidiamo a loro per una guida, più diminuisce la nostra statura tra le nazione africane.»

Nambey Faranah levò un dito vibrante. «Non è del tutto corretto, Compagno Shgawe!»

Shgawe lo ignorò «Per questa ragione ho acquistato diciotto armi americane. Ammetto che sono ingombranti e sorpassate. Ma sono tuttora strumenti terribili, ed esigono rispetto. Con diciotto missili intercontinentali pronti contro qualsiasi attacco, noi consolidiamo la nostra posizione di leader dell’Africa Nera.»