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Il Lumumba circumnavigò lentamente l’impianto, che ormai aveva raggiunto una collocazione permanente nella sabbia. A bordo della draga gli ingegneri russi stavano sbloccando le pompe, prima di effettuare la stessa operazione sul secondo impianto.

Un cameriere si avvicinò a Keith. «Adoui Shgawe desidera parlarti.»

Keith seguì il cameriere al circolo ufficiali, e mentre entrava incontrò uno dei suoi colleghi sul punto di uscire.

Adoui Shgawe si alzò in piedi e si inchinò gravemente. «Tamba Ngasi, siediti, prego. Gradisci un bicchiere di brandy?»

Keith scosse bruscamente la testa per una frequente idiosincrasia di Ngasi.

«Conosci il Grande Maresciallo Hashembe?» chiese Shgawe educatamente.

Keith era stato istruito esaurientemente per quanto possibile, ma su quel punto non aveva alcuna informazione. Eluse la domanda. «Ho un’alta stima delle capacità del Grande Maresciallo.»

Hashembe gli rispose con un breve cenno del capo, ma non disse nulla.

«Colgo l’occasione,» disse Shgawe, «per sapere se sei solidale con il mio programma, ora che hai avuto l’opportunità di osservarlo più da vicino.»

Keith si prese un momento per riflettere. Nelle parole di Shgawe si nascondeva l’implicazione di un precedente disaccordo. Si immedesimò nella parte di Tamba Ngasi, e parlò esprimendo le opinioni che ci si sarebbe aspettati da lui. «C’è troppo spreco, troppa influenza straniera. Abbiamo bisogno di acqua per le terre aride, abbiamo bisogno di medicine per il bestiame. Queste cose mancano, e interi tesori vengono sperperati per le costruzioni idiote di Fejo.» Con la coda dell’occhio vide Hashembe stringere appena gli occhi. Approvazione?

Shgawe rispose, con studiata affabilità. «Rispetto la tua argomentazione, ma c’è altro da considerare: i Russi ci hanno prestato il denaro per costruire Fejo come simbolo di progresso. Non avrebbero permesso che il denaro venisse usato a scopi meno drammatici. Abbiamo accettato, e sento che ne abbiamo beneficiato. Oggi giorno il prestigio è altamente importante.»

«Importante, per chi? A quale fine?» Borbottò Keith. «Perché dobbiamo aspirare a una gloria che non è nostra?»

«Dichiari la sconfitta prima che la battaglia cominci,» disse Shgawe con maggior vigore. «Sfortunatamente questo è il nostro retaggio africano, e deve essere superato.»

Keith, sempre recitando la parte di Ngasi, disse: «La mia patria è Kotoba, sulle acque stagnanti del Dasa, e la mia gente vive in capanne di fango. Non è ridicola l’idea della gloria per il popolo di Kotoba? Dateci acqua, bestiame e medicine.»

La voce di Shgawe calò di tono. «Per il popolo di Kotoba, anch’io voglio acqua, bestiame e medicine. Ma voglio più di questo, e gloria forse è una ben misera parola da usare.»

Hashembe si alzò in piedi, si inchinò rigidamente a Shgawe e a Keith, e lasciò la stanza. Shgawe scosse la testa rotonda. «Hashembe non può capire la mia visione. Lui vuole che scacci gli stranieri: i Russi, i Francesi, gli Indù, soprattutto i Cinesi.»

Keith si alzò. «Io non sono del tutto contrario ai tuoi punti di vista. Forse hai dei documenti che posso leggere?» Mosse con disinvoltura un passo all’interno della stanza. Shgawe scrollò le spalle e guardò tra le sue carte. Keith sembrò inciampare, e con le nocche sfiorò la parte posteriore del collo grassoccio di Shgawe. «Ti chiedo perdono, Eccellenza,» disse Keith. «Sono maldestro.»

«Non importa,» disse Shgawe. «Ecco: questo e questo, carte che spiegano le mie idee per lo sviluppo di Lakhadi e della Nuova Africa.»

Sbatté le palpebre. Keith prese le carte, le esaminò. Gli occhi di Shgawe si chiusero pesantemente mentre la droga iniettatagli sottopelle da Keith si diffondeva nel suo corpo.

Keith si mosse in fretta. Shgawe portava i capelli cosparsi di olio a ricci grossi e corti; alla base di uno dei ricci Keith fissò una pallottolina nera non più grande di un granello di riso, poi si tirò indietro e si rimise a leggere le carte.

Hashembe rientrò nella stanza. Si fermò, spostò lo sguardo da Shgawe a Keith. «Sembra che si sia appisolato,» disse Keith e continuò a leggere.

«Adoui Shgawe!» lo chiamò Hashembe. «Stai dormendo?»

Le palpebre di Shgawe vibrarono; tirò un profondo sospiro, alzò gli occhi. «Hashembe… Devo avere sonnecchiato. Ah, Tamba Ngasi. Quelle carte, puoi tenerle, e spero che in Parlamento ti comporterai in modo solidale riguardo alle mie proposte. Sei un uomo influente, e dipendo dal tuo supporto.»

«Terrò a cuore le tue parole, Eccellenza.» Lasciando il circolo ufficiale Keith salì rapidamente sul ponte volante. Il Lumumba adesso stava risalendo la costa verso Fejo. Keith toccò uno degli interruttori interni, e la voce di Shgawe attraversò il suo canale uditivo: «…è cambiato, e in complesso è diventato un uomo più ragionevole. Non ho prove al riguardo, oltre a ciò che percepisco in lui.»

La voce di Hashembe gli giunse più debolmente: «Sembra che non si ricordi di me, ma molti anni fa, quando apparteneva alla Società degli Uomini Leopardo, ho catturato lui e una dozzina dei suoi compagni a Engassa. Ha ucciso due dei miei uomini ed è scappato, ma non gli porto rancore.»

«Ngasi è un uomo che merita un’attenta considerazione,» disse Shgawe. «È più acuto di quanto sembri, e non ha molto del capotribù di una terra di confine, come vorrebbe farci credere.»

«Forse no,» disse Hashembe.

Keith interruppe la connessione, parlò per il codificatore: «Sono a bordo del Lumumba, siamo appena andati a dare un’occhiata agli impianti missilistici. Ho attaccato la mia trasmittente numero uno alla persona di Adoui Shgawe; adesso state intercettando le conversazioni di Shgawe. Io non mi azzardo ad ascoltare; potrebbero scoprirmi a causa della risonanza. Se capita qualcosa di interessante, fatemelo sapere.»

Fece scattare l’interruttore; l’impulso dell’informazione sfrecciò fino al satellite e rimbalzò giù a Washington.

Il Lumumba entrò a Tabacoundi Bay e attraccò. Keith ritornò all’Hotel des Tropiques, si fece portare al secondo piano dall’ascensore scintillante, percorse a lunghi passi il corridoio di seta e marmo e arrivò alla porta della sua stanza. Due circostanze gli salvarono la vita: l’abitudine inveterata di non oltrepassare mai incautamente una porta, e il radar negli amuleti alle orecchie. La prima lo mise in guardia; la seconda lo scagliò di lato e indietro, mentre il punto occupato prima dalla sua faccia veniva attraversato da una pioggia di piccoli aghi di vetro che colpirono tintinnando la parete opposta e caddero a terra in frammenti.

Keith si rimise in piedi, guardò attentamente nella stanza. Era vuota. Entrò e chiuse la porta. Una catapulta aveva lanciato gli aghi, un meccanismo piuttosto semplice. Qualcuno nell’Hotel sarebbe stato nei paraggi per controllare l’accaduto e per rimuovere la catapulta, necessariamente in brevissimo tempo.

Keith corse alla porta, l’aprì piano, guardò nel corridoio. Vuoto, ma già si sentiva rumore di passi. Lasciò la porta aperta e si appiattì contro la parete.

I passi si fermarono. Keith udì respirare. Sulla soglia apparve la punta di un naso; si mosse interrogativamente a destra e a sinistra. Poi ecco tutto il volto che si girò e guardò in faccia a Keith. La bocca si aprì in un sussulto, poi si contrasse in una smorfia quando le mani di Keith si alzarono a stringere il collo. La bocca aperta non emise alcun suono.