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Keith tirò l’uomo nella stanza e chiuse la porta. Era un mulatto, di circa quarant’anni. Le guance grasse erano gonfie e cadenti, il naso un becco pieno di protuberanze. Keith lo riconobbe: Corty, il suo contatto originario a Fejo. Lo guardò profondamente negli occhi; erano arrossati e le pupille erano punte di spillo; lo sguardo sembrava velato.

Keith trasmise una scarica di elettricità nel corpo simile a gomma. Corty aprì la bocca in agonia, ma non gridò. Keith fece per parlare, ma Corty lo indusse al silenzio con un gesto disperato. Prese la matita dalla tasca di Keith e scribacchiò in inglese: «Cinesi, mi hanno messo un circuito nella testa, mi fanno impazzire.»

Keith lo fissò. Corty improvvisamente spalancò gli occhi. Lanciando un urlo afono portò le mani ad artiglio alla gola di Keith, tentando di stringerla.

Keith lo uccise con una scarica elettrica e rimase a guardare il corpo afflosciato a terra.

Che il cielo aiuti gli agenti americani che cadono in mano ai Cinesi, pensò Keith. Gli avevano fatto passare dei fili nel cervello, nella sede dei processi connessi al dolore; poi impartendo ordini e ascoltando attraverso dei transistor, potevano punzecchiare, punire, o condurre alla frenesia furiosa secondo la loro volontà. Quell’uomo era più felice da morto.

I Cinesi avevano scoperto la sua identità. Forse qualcuno lo aveva visto piazzare l’intercettatore su Shgawe? O Doutoufsky aveva fatto un’allusione esplicita? Oppure — ma era la cosa meno probabile — i Cinesi desideravano semplicemente toglierlo di mezzo, come Africano isolazionista?

Keith guardò nel corridoio, e vide che era deserto. Fece rotolare fuori il cadavere, e ispirato da un macabro capriccio lo trascinò per i piedi fino all’ascensore e lo spedì giù nell’atrio.

Ritornò nella sua stanza in preda alla depressione. Nord contro Est contro Sud contro Ovest: una guerra a quattro poli. Il pensiero gli corse a tutte le battaglie, le campagne, le tragedie: sofferenze superiori a ogni calcolo. E a quale scopo? La finale pacificazione della Terra? Improbabile, considerando in milioni di anni ancora a venire. E allora perché lui, James Keith, cittadino americano, era mascherato da Tamba Ngasi, e correva il rischio di perdere la vita e di ritrovarsi i centri del dolore del cervello attraversati da fili elettrici? Le riflessioni riportarono Keith a una risposta evidente: tutta la storia umana è condensata nello spazio vitale di ogni individuo. Ogni uomo può godere dei trionfi o patire le sconfitte di tutta la razza umana. Carlo Magno era morto da grande eroe, anche se il suo impero si era immediatamente diviso in frammenti. Ogni uomo deve vincere la sua vittoria personale, conquistare la sua meta unica ed egoistica.

Altrimenti, la speranza non poteva esistere.

Il cielo sopra il fantastico profilo di Fejo si tinse di un porpora fumoso. Luci colorate ammiccavano nella piazza. Keith andò alla finestra, guardò fuori il fantastico cielo al crepuscolo. Non voleva avere più niente a che fare con quella faccenda; se fosse volato subito a casa, avrebbe potuto salvarsi la vita. Altrimenti… pensò a Corty. Nella sua mente scattò un collegamento. La voce di Carl Sebastiani parlò senza emettere il minimo suono ma aspra e pressante: «Adoui Shgawe è morto… assassinato due minuti fa. La notizia ci è giunta grazie alla tua trasmittente numero uno. Vai a palazzo, agisci con decisione. Questo è un evento critico.»

Keith si alzò, provò gli accumulatori. Fece scorrere indietro la porta, guardò nel corridoio. Due uomini nella tunica bianca della Milizia di Lakhadi erano vicino all’ascensore. Keith uscì e si diresse verso di loro. I due uomini tacquero e lo osservarono avvicinarsi. Keith fece un cenno con austera cortesia; si dispose a scendere ma lo fermarono. «Signore, hai avuto una visita questa sera? Un mulatto di mezza età?»

«No. Cosa significa tutto questo?»

«Stiamo cercando di identificare quest’uomo. È morto in strane circostanze.»

«Non so niente di lui. Fatemi passare; sono il Parlamentare Tamba Ngasi.»

Gli uomini della Milizia si inchinarono educatamente; Keith scese nell’atrio con l’ascensore.

Attraversò di corsa la piazza, passò davanti ai sei guerrieri di basalto, si avvicinò alla facciata del palazzo. Salì i bassi gradini, entrò nel vestibolo. Un usciere in uniforme rossa e argento, con un copricapo piumato munito di nasale d’argento, gli si fece incontro. «Buona sera, signore.»

«Sono Tamba Ngasi, Parlamentare. Devo vedere Sua Eccellenza, immediatamente.»

«Spiacente, signore, il Premier Shgawe ha dato ordine di non essere disturbato questa sera.»

Keith puntò un dito verso l’atrio. «E allora chi è quello?»

L’usciere guardò, Keith gli batté le nocche contro la gola, gli premette le giunture nervose sotto le orecchie fino a che smise di lottare, poi lo trascinò nel suo cubicolo. Sbirciò nell’atrio. Alla scrivania della reception era seduta una giovane donna attraente in un lava-lava polinesiano. Aveva la pelle dorata, e i capelli erano raccolti in una soffice piramide nera.

Keith entrò, e la giovane gli sorrise cortesemente.

«Il Premier Shgawe mi sta aspettando,» disse Keith. «Dove posso trovarlo?»

«Spiacente, signore, ha appena dato ordine che non vuole essere disturbato.»

«Appena dato ordine?»

«Sì, signore.»

Keith annuì assennatamente, poi indicò il telefono sulla scrivania. «Sii così gentile da chiamare il Grande Maresciallo Achille Hashembe, per una questione urgente.»

«Il tuo nome, signore?»

«Sono il Parlamentare Tamba Ngasi. Fai in fretta.»

La ragazza si chinò sul telefono.

«Chiedigli di raggiungere subito me e il Premier Shgawe,» ordinò Keith brevemente.

«Ma, signore…»

«Il Premier Shgawe mi sta aspettando. Chiama subito il Maresciallo Hashembe.»

«Sì, signore.» La ragazza premette un bottone. «Il Grande Maresciallo Hashembe dal Palazzo di Stato.»

«Dove posso trovare il Premier?» chiese Keith avviandosi.

«È nel salotto del secondo piano, con i suoi amici. Un fattorino ti accompagnerà.» Keith attese; meglio pochi secondi di ritardo che un’addetta alla reception isterica.

Arrivò il fattorino, un ragazzo di sedici anni con una lunga tunica di velluto nero. Keith lo seguì su per una rampa di scale fino a due battenti di legno intagliato. Il fattorino fece per aprire la porta, ma Keith lo fermò. «Ritorna ad aspettare il Grande Maresciallo Hashembe e portalo subito qui.»

Il fattorino si ritirò esitante, guardando da sopra la spalla. Keith non gli fece più attenzione. Spinse piano il saliscendi. La porta era chiusa a chiave. Keith premette una minima quantità di esplosivo plastico sullo stipite della porta, vi attaccò un detonatore e si appiattì contro la parete.

Simultaneamente all’esplosione, Keith si gettò tra le schegge di legno, spalancò la porta con una spinta, ed entrò. Tre uomini sbigottiti lo guardarono. Uni di essi era Adoui Shgawe. Gli altri due erano Hsia Lu-Minh, l’Ambasciatore cinese, e Vasif Doutoufsky, Capoufficio del Grande Parlamento di Lakhadi.

Doutoufsky era fermo con il pugno destro chiuso, leggermente sporto in avanti. Sul dito medio scintillava la pietra di un grosso anello.

Dei passi risuonarono per il corridoio: l’usciere e un guerriero nell’uniforme di cuoio nero della Guardia Eletta Corvina.

Shgawe chiese mitemente: «Che cosa significa tutto questo?»

L’usciere esclamò con ardore: «Quest’uomo mi ha aggredito; è venuto con propositi malvagi!»

«No,» protestò Keith confuso. «Temevo che Tua Eccellenza fosse in pericolo; adesso vedo che ero stato male informato.»