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— Lei sogna nella stessa dimensione su cui costruisce: superbamente — disse Shevek, chiuso e ritirato. Oegeo e gli altri avrebbero voluto mostrargli molte altre cose e continuare a discutere con lui, ma dopo breve tempo egli disse, con una semplicità che escludeva ogni interpretazione ironica: — Credo che fareste meglio a riportarmi ai miei guardiani.

Così fecero; si diedero l’addio con reciproco calore. Shevek salì sulla vettura, ma poi ne uscì nuovamente. — Dimenticavo — disse. — Abbiamo ancora tempo di vedere una cosa a Drio?

— Non c’è altro da vedere, a Drio — disse Pae, cortese come sempre, anche se non riusciva a nascondere completamente il fastidio procuratogli dalla scappata di cinque ore di Shevek fra gli ingegneri.

— Mi piacerebbe vedere il forte.

— Quale forte, signore?

— Un vecchio castello risalente ai tempi dei re, e che in seguito venne usato come prigione.

— Questo genere di cose è stato demolito, probabilmente. La Fondazione ha completamente ricostruito la città.

Quando furono all’interno della vettura e l’autista stava chiudendo le portiere, Chifoilisk (la cui presenza, molto probabilmente, era un’altra delle cause del malumore di Pae) chiese:

— Perché mai voleva vedere un altro vecchio castello, Shevek? Pensavo che ormai avesse fatto una scorpacciata di antiche rovine.

— Il Forte di Drio è il luogo dove Odo ha passato nove anni — Shevek rispose. Il suo viso si era indurito quando aveva parlato con Oegeo, e da allora non si era più rilassato. — Dopo l’Insurrezione del 747. Laggiù scrisse le Lettere dalla prigione, e anche l’Analogia.

— Mi spiace che sia stato demolito — disse Pae, addolorato.

— Drio era una città moribonda, e la Fondazione ha tolto tutto ed è partita da zero.

Shevek annuì. Ma quando la macchina corse parallela agli argini del fiume, diretta verso la strada che portava a Ieu Eun, e passarono davanti a un colle, in una curva del fiume Seisse, in alto, sulla cima del colle, apparve una costruzione massiccia, diroccata, implacabile, con torri sbreccate di pietra nera. Nulla sarebbe potuto essere più remoto dagli spettacolari, spensierati edifici della Fondazione per le Ricerche Spaziali, con le loro cupole vistose, le fabbriche luminose, i prati e i viali ben curati. Nulla avrebbe potuto meglio farli parere altrettanti pezzi di carta colorata.

— Quello, mi pare, è il Forte — osservò Chifoilisk, con il consueto piacere nel piazzare osservazioni prive di tatto là dove erano meno desiderate.

— Tutto una rovina — disse Pae. — Dev’essere vuoto.

— Desidera fermarsi a dargli un’occhiata, Shevek? — disse Chifoilisk, pronto a battere le nocche sul vetro che li divideva dall’abitacolo dell’autista.

— No — rispose Shevek.

Aveva visto ciò che desiderava vedere. C’era ancora un Forte a Drio. Non aveva bisogno di entrare, di cercare per corridoi in rovina la cella in cui Odo aveva passato nove anni. Egli sapeva già com’era fatta una cella di prigione.

Con il viso ancora rigido e freddo, alzò lo sguardo alle mura nere e pesanti che ora giganteggiavano sopra la vettura. Sono qui da un tempo immemorabile, diceva il forte, e qui resto.

Quando fu di nuovo nelle proprie stanze, dopo avere consumato il pasto serale nel Refettorio degli Anziani di Facoltà, si mise a sedere da solo, accanto al focolare non acceso. In A-Io era estate, e si appressavano i giorni più lunghi dell’anno: erano già passate le otto, ma non era ancora buio. Al di là degli archi delle finestre si vedeva ancora una traccia del colore diurno del cielo: un puro, tenero turchino. L’aria era tiepida, e sapeva di erba tagliata e di terra umida. C’era una luce nella cappella, al di là del prato, e una debole eco di musica nell’aria debolmente mossa. Non era il canto degli uccelli, bensì una musica umana. Shevek ascoltò. Qualcuno stava esercitandosi sulle Armonie Numeriche. Erano altrettanto familiari a Shevek quanto ad ogni urrasiano. Odo non aveva cercato di rinnovare le relazioni fondamentali della musica, quando aveva rinnovato le relazioni degli uomini. Ella aveva sempre rispettato ciò che era necessario. I Coloni di Anarres si erano lasciati alle spalle le leggi dell’uomo, ma avevano portato con sé quelle dell’armonia.

La stanza grande e tranquilla era silenziosa e si stava oscurando con l’avanzare della sera. Shevek si guardò intorno, fissando il perfetto doppio arco delle finestre, il pavimento di legno lucido che rifletteva debolmente il chiarore, la curva robusta e le ombre del caminetto di pietra, le pareti coperte di pannelli, ammirevoli per le loro proporzioni. Era una stanza bellissima e accogliente. Questa Casa degli Anziani di Facoltà, gli avevano detto, era stata costruita nell’anno 540, quattrocento anni fa, duecento e trenta anni prima dell’Insediamento di Anarres. Generazioni di studiosi erano vissute, avevano lavorato, parlato, pensato, dormito, erano morte in quella stanza prima ancora che fosse nata Odo. Le Armonie Numeriche erano dilagate sul prato, fra le scure foglie del boschetto, per secoli. Sono qui da un tempo immemorabile, diceva la stanza a Shevek, e qui resto. Ma tu, qui, che cosa fai?

Ed egli non aveva risposta. Egli non poteva vantare alcun diritto a tutta la grazia e l’abbondanza di quel pianeta: una grazia e un’abbondanza guadagnate e conservate dal lavoro, la devozione, la fedeltà del suo popolo. Il paradiso è per coloro che lo fabbricano. Egli non vi apparteneva. Egli era un uomo delle frontiere, apparteneva a una stirpe che aveva negato il proprio passato, la propria storia. I Coloni di Anarres avevano voltato la schiena al Vecchio Pianeta e al suo passato, avevano optato per il solo futuro. Ma, esattamente come il futuro diviene il passato, il passato diviene il futuro. Negare non è raggiungere, non è conseguire. Gli odoniani che avevano lasciato Urras erano in torto, in torto pur col loro disperato coraggio, nel negare la loro storia, nel rinunciare alla possibilità del ritorno. L’esploratore che non ritorna o che manda indietro le proprie navi a riferire la sua storia non è un esploratore, ma solamente un avventuriero, e i suoi figli sono partoriti nell’esilio.

Egli era venuto per amare Urras, ma a che valeva la sua sete di amore? Egli non ne faceva parte di Urras. Né faceva parte del mondo che gli aveva dato i natali.

La solitudine, la certezza dell’isolamento, che egli aveva sperimentato nella sua prima ora a bordo della nave spaziale, si gonfiarono ora in lui e si affermarono come la sua vera condizione: ignorata, rimossa, ma assoluta.

Egli era solo, su Urras, poiché veniva da una società che si era messa volontariamente in esilio. E sul proprio mondo era sempre stato solo perché si era esiliato dalla propria società. I Coloni avevano fatto un passo in avanti. Egli ne aveva fatti due. E faceva parte a sé, era solo, poiché aveva affrontato il rischio metafisico.

Ed era stato talmente sciocco da pensare di poter riunire due mondi ai quali non apparteneva.

Il blu del cielo notturno, dietro la finestra, richiamò i suoi occhi. Al di sopra della vaga oscurità delle fronde e della torre della cappella, al di sopra del vago profilo delle montagne, che sempre, di notte, parevano più piccole e remote, una luce si stava allargando: un’ampia, morbida radianza. Si alza la Luna, pensò, con un grato senso di familiarità. Non c’è frattura nell’integrità del tempo. Egli aveva visto sorgere la Luna da bimbo, dalle finestre del domicilio di Ampio Piano, insieme con Palat; l’aveva vista alzarsi sulle colline della sua adolescenza; sulle aride piane della Polvere; sui tetti di Abbenay, con Takver che la osservava accanto a lui.

Ma non questa Luna.

Le ombre si spostavano accanto a lui, ed egli rimase a sedere senza muoversi, mentre Anarres si innalzava al di sopra delle montagne straniere; Anarres piena, bigia maculata e bianco-azzurrina, splendente. La luce del suo mondo gli riempì le mani vuote.

CAPITOLO 4

La luce del tramonto, battendogli sul viso, destò Shevek quando il dirigibile, superato l’ultimo passo dei Ne Theras, voltò verso sud. Aveva dormito per la maggior parte della giornata: la terza del lungo viaggio. La sera della festa d’addio era mezzo mondo alle sue spalle. Egli sbadigliò e si stropicciò gli occhi e scosse il capo, cercando di allontanare dalle proprie orecchie il profondo ronzio dei motori del dirigibile; infine si destò del tutto, e comprese che il viaggio era quasi terminato, che dovevano ormai essere vicini ad Abbenay. Accostò il viso al finestrino polveroso, ed effettivamente, in basso sotto di loro, tra due rugginose creste montane c’era un grande campo chiuso da un muro: il Porto. Lo scrutò con impazienza, cercando di scorgere se ci fosse una nave sulla pista d’atterraggio. Per spregevole che fosse, Urras era pur sempre un altro mondo; egli desiderava vedere una nave di un altro mondo, un viaggiatore che avesse attraversato l’abisso asciutto e terribile, una cosa costruita da mani straniere. Ma non c’erano navi nel Porto.