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I mercantili di Urras giungevano soltanto otto volte l’anno, e si fermavano esattamente quel tanto che bastava per le operazioni di carico e di scarico. Non erano visitatori graditi. Anzi, per qualche anarresiano le navi erano un’umiliazione che si rinnovava ogni volta.

Le navi portavano petrolio e derivati petroliferi, certe delicate parti meccaniche e certe piccole componenti elettroniche che le industrie anarresiane non erano attrezzate a produrre, e spesso anche una nuova specie di alberi da frutto o di cereali da provare. Riportavano a Urras un pieno carico di mercurio, rame, alluminio, uranio, stagno, e oro. E per gli urrasiani era un ottimo affare. La divisione di questi carichi, otto volte l’anno, era la funzione più prestigiosa dell’urrasiano Concilio dei Governi Mondiali e il massimo avvenimento della borsa mondiale di Urras. Di fatto, il Libero Mondo di Anarres era una colonia mineraria di Urras.

La cosa irritava. Ogni generazione, ogni anno, nei dibattiti del CDP ad Abbenay, fiere proteste si alzavano: «Perché continuiamo queste transazioni d’affari da profittatori con i proprietaristi guerrafondai?». E teste meno calde fornivano la risposta, sempre uguale: «Per gli urrasiani sarebbe più costoso venire di persona a scavare i minerali loro occorrenti; per questo non ci invadono. Ma se noi rompessimo i trattati commerciali, gli urrasiani userebbero la forza.» È assai difficile, tuttavia, per persone che non hanno mai pagato denaro per qualcosa, capire la psicologia del costo, l’argomento del prezzo di mercato. Sette generazioni di pace non avevano portato la fiducia.

Pertanto l’incarico di lavoro chiamato Difesa non aveva mai bisogno di sollecitare volontari. La maggior parte del lavoro della Difesa era talmente noioso che non veniva neppure chiamato «lavoro» in pravico, lingua che usava la stessa parola per «lavoro» e per «gioco», ma kleggich, sfacchinata, compito ingrato. Gli addetti alla Difesa equipaggiavano le dodici navi interplanetarie, le riparavano e le tenevano in orbita come rete di guardia; prestavano servizio presso stazioni radar e radiotelescopiche collocate in luoghi isolati; svolgevano lavori noiosi al Porto. E tuttavia c’era sempre una lunga lista di candidati. Per quanto fosse pragmatica la moralità che un giovane anarresiano assorbiva dall’ambiente, egli traboccava ugualmente di vita, e questa vita gli chiedeva altruismo, sacrificio della propria persona, spazio per il gesto assoluto. Solitudine, stato di allarme, pericolo, astronavi; tutte queste cose avevano l’attrattiva del romanzesco. E fu questo gusto del romanzesco a indurre Shevek a schiacciare il naso contro il finestrino finché il Porto vuoto non si fu allontanato alle spalle del dirigibile, e a lasciarlo in preda al disappunto poiché non aveva potuto vedere sulla piattaforma una delle intoccabili navi minerarie.

Sbadigliò nuovamente, si stiracchiò, e poi guardò fuori, in direzione della prua del dirigibile, per vedere se ci fosse qualcosa da vedere. Il dirigibile passava accanto all’ultima bassa cresta dei Ne Theras. Davanti ad esso, a partire dai bracci della catena montana, allargandosi verso sud, brillante sotto il sole del pomeriggio, giaceva in leggera discesa una grande baia verdeggiante.

La fissò con meraviglia, come l’avevano già fissata, seimila anni prima, i suoi antenati.

Nel Terzo Millenio di Urras i sacerdoti astronomi di Serdonou e Dhun avevano osservato le stagioni cambiare la lucentezza marrone dell’Altro Mondo, e avevano dato mistici nomi alle pianure e alle catene montuose, e ai mari che riflettevano il sole. La regione che rinverdiva prima di ogni altra nel nuovo anno lunare era stata da loro chiamata Ans Hos, il Giardino della Mente: l’Eden di Anarres.

Nei millenni successivi i telescopi avevano dimostrato che gli antichi sacerdoti non s’erano sbagliati. Ans Hos era davvero il punto più favorevole di Anarres; e il primo veicolo spaziale con un uomo a bordo che scese sulla Luna, scelse proprio quel punto per scendere, quell’area verde tra le montagne e il mare.

Ma l’Eden di Anarres risultò essere asciutto, freddo e ventoso, e il resto del pianeta risultò essere ancora peggio. La vita sul pianeta si era evoluta soltanto fino ai pesci e alle piante senza fiori. L’aria era sottile, come quella di Urras a un’elevata altitudine. Il sole bruciava, il vento raggelava, la polvere era soffocante.

Per duecento anni, dopo quella prima discesa, Anarres venne esplorato, cartografato, studiato, ma non colonizzato. Perché trasferirsi in un deserto terribile quando c’era abbondanza di spazio nelle dolci vallate di Urras?

Tuttavia, venne scavato. Le epoche del Nono e dell’inizio del Decimo Millennio, saccheggiatrici di se stesse, avevano svuotato le riserve minerarie di Urras; con il perfezionamento dell’astronautica, divenne più economico scavare la Luna che estrarre da minerali poveri o dall’acqua del mare i metalli occorrenti.

Nell’anno urrasiano IX-738 venne fondata una colonia ai piedi dei Monti Ne Theras, sede di una miniera di mercurio, nell’antica zona di Ans Hos. Il punto venne chiamato Città Anarres. Non era però una città: non c’erano donne. Gli uomini firmavano un contratto per due o tre anni come minatori o come tecnici, poi tornavano a casa, sul mondo reale.

La Luna e le sue miniere erano sotto la giurisdizione del Consiglio dei Governi Mondiali, ma nell’altra parte della Luna, nell’emisfero orientale, la nazione di Thu aveva un piccolo segreto: una base di astronavi e una colonia di minatori, con moglie e figli. Essi abitavano veramente sulla Luna, e la cosa era nota esclusivamente al loro governo. Fu il crollo di quel governo nell’anno 771 a far nascere la proposta, nel Consiglio dei Governi Mondiali, di dare la Luna alla Società Internazionale degli Odoniani: di comprarli con un mondo, prima che minassero fatalmente l’autorità della legge e la sovranità nazionale su Urras. Città Anarres venne evacuata, e dal bel mezzo della confusione che regnava in Thu partì in fretta un’ultima coppia di razzi che dovevano raccogliere i minatori. Ma non tutti i minatori decisero di ritornare. Ad alcuni di loro piaceva il deserto terribile.

Per più di vent’anni le dodici astronavi assegnate ai coloni Odoniani dal Consiglio dei Governi Mondiali fecero la spola tra i mondi, finché il milione di anime che avevano scelto la nuova vita non fu completamente trasportato al di là dell’abisso asciutto. Poi il porto venne chiuso all’immigrazione e aperto solamente ai mercantili dell’Accordo Commerciale. A quell’epoca Città Anarres accoglieva già centomila persone, ed era stata ribattezza Abbenay, che significava, nella nuova lingua della nuova società, «La Mente».

Il decentramento era stato un elemento essenziale nei progetti di Odo per la società ch’ella non poté mai vedere. Ella non aveva avuto intenzione di de-urbanizzare la civiltà. Anche se aveva suggerito che il limite naturale delle dimensioni di una comunità stava nella dipendenza dalla regione immediatamente circostante per ottenere il cibo e l’energia che le erano indispensabili, ella pensava che tutte le comunità dovevano essere collegate da reti di comunicazione e di trasporto, in modo che le merci e le idee potessero accorrere dove erano richieste, l’amministrazione potesse operare con semplicità e velocità, e tutte le comunità potessero giovarsi degli scambi reciproci. Ma la rete non doveva essere diretta dall’alto. Non ci doveva essere nessun centro di controllo, nessuna capitale, nessuna sede in cui potesse instaurarsi il meccanismo autoriproducentesi della burocrazia e potesse stabilirsi l’impulso di dominio di individui che cercassero di diventare capitani, comandanti, capi di stato.