I piani di Odo, tuttavia, si erano basati sulla terra generosa di Urras. Sull’arida Anarres le comunità dovettero distribuirsi a larghi intervalli per trovare le risorse naturali, e poche di esse poterono risultare autosufficienti, indipendentemente dal limite a cui facessero retrocedere il loro concetto di ciò che è sufficiente al sostentamento. Lo ridussero in modo davvero drastico, ma raggiunsero un limite al di sotto del quale non erano disposte ad andare: non volevano regredire al tribalismo pre-urbano, pre-tecnologico. I Coloni sapevano che la loro anarchia era il prodotto di una civiltà molto alta, di una cultura complessa e differenziata, di un’economia stabile e di una tecnologia altamente industrializzata che potevano mantenere un’alta produzione e un rapido trasporto delle merci. Per quanto vaste fossero le distanze fra di loro, gli insediamenti si attennero agli ideali dell’organicismo complesso. Costruirono per prime le strade, per seconde le case. Le risorse e le produzioni di ogni particolare regione venivano scambiate continuamente con quelle di altre regioni, con un processo complicato di equilibri: l’equilibrio di differenze che è caratteristico della vita, dell’ecologia naturale e sociale.
Ma come si diceva nel modello analogico, non si può avere un sistema nervoso senza avere almeno un ganglio, e preferibilmente un cervello. Occorreva che ci fosse un centro. I computer che coordinavano l’amministrazione, la divisione del lavoro, la distribuzione delle merci e le federative centrali dei principali gruppi di lavoro, furono in Abbenay, fin dall’inizio. E fin dall’inizio i Coloni furono consapevoli del fatto che quell’inevitabile centralizzazione costituiva una minaccia costante, che andava rintuzzata mediante una costante vigilanza.
O bimba Anarchia, infinita promessa
Infinita attenzione.
Io ascolto, ascolto nella notte
Accanto alla cuna profonda mentre la notte
È gentile con la bimba.
Pio Atean, che prese il nome pravico Tober, scrisse questi versi nel quattordicesimo anno dell’Insediamento. I primi tentativi degli Odoniani per trasformare il loro nuovo linguaggio, il loro nuovo mondo, in poesia, furono rigidi, sgraziati, commoventi.
Abbenay, mente e centro di Anarres, era adesso davanti al dirigibile, nell’ampia pianura verde.
Il verde brillante e profondo dei campi era inconfondibile: un colore che non era quello nativo di Anarres. Solo qui e sulle tiepide coste del Mare Kerano attecchivano i cereali del Vecchio Pianeta. In ogni altro punto, la produzione principale di cereali era costituita di holum di terra e di mene erbacea.
Quando Shevek aveva nove anni, il suo lavoro scolastico pomeridiano, per vari mesi, era stato quello di accudire alle piante ornamentali della comunità di Piano Alto: piante delicate, esotiche, che dovevano venire nutrite e poste al sole come neonati. Egli aveva aiutato un vecchio in quel lavoro tranquillo ed esigente, e aveva amato il vecchio e aveva amato le piante, la terra, il lavoro. Quando vide il colore della Piana di Abbenay ricordò il vecchio, e l’odore del letame dei pesci da olio, e il colore dei butti sui sottili rami nudi, il verde chiaro e vigoroso.
Egli scorse nella distanza, tra i campi vividi, una lunga chiazza di bianco, che si risolse in cubi, come sale versato, quando il dirigibile la sorvolò.
Un ammasso di lampi accecanti al bordo orientale della città lo costrinse a strizzare le palpebre e per un istante gli fece vedere delle macchie scure: i grandi specchi parabolici che fornivano calore solare alle raffinerie di Abbenay.
Il dirigibile prese terra a una stazione per le merci al confine meridionale della città, e Shevek pose piede nelle strade della più grande città del mondo.
Erano strade ampie e pulite. Non avevano ombre, poiché Abbenay giaceva a poco meno di trenta gradi a nord dell’Equatore, e tutti gli edifici erano bassi, ad eccezione delle torri, robuste e sottili, delle turbine a vento. Il sole bianco splendeva nel cielo duro, scuro, azzurro cupo. L’aria era chiara e pulita, priva di fumo e di umidità. Le cose erano vivide, rigide nei bordi e negli angoli, nette. Ogni cosa si stagliava separatamente, risaltava in se stessa.
Gli elementi che componevano Abbenay erano uguali a quelli di ogni altra comunità Odoniana, ripetuti varie volte: botteghe, fabbriche, domicili, dormitori, centri d’apprendimento, sale di riunione, distributori, stazioni, refettori. Quasi sempre, gli edifici più grandi erano raggruppati intorno a spazi aperti, dando alla città una struttura cellulare: una sotto-comunità o quartiere dopo l’altro. Le industrie pesanti e gli impianti per le lavorazioni alimentari tendevano a raggrupparsi alla periferia della città, e il modulo cellulare veniva ripetuto, nel senso che le industrie facenti parte di uno stesso ciclo di lavorazioni quasi sempre sorgevano a fianco a fianco lungo una determinata strada o piazza. Il primo di questi raggruppamenti attraversato da Shevek era una serie di piazze, il distretto tessile, pieno di impianti per la lavorazione della fibra di holum, di laboratori per la filatura e la tessitura, tintorie e distributori di tessuto e di abiti; nel centro di ciascuna piazza era infissa una piccola foresta di aste piene da cima a fondo di bandiere e pennoni di tutti i colori prodotti dai tintori, che così affermavano con orgoglio le capacità locali. In maggior parte, gli edifici della città erano simili tra loro: disadorni, costruiti solidamente in pietra o in pomice artificiale. Alcuni edifici parevano enormi agli occhi di Shevek, ma quasi tutti avevano un piano solo, a causa della frequenza dei terremoti. Per la stessa ragione le finestre erano piccole, di una dura plastica al silicone che non si infrangeva. Erano piccole, ma assai numerose, poiché non veniva fornita illuminazione artificiale da un’ora prima dell’alba a un’ora dopo il tramonto. Non veniva fornito riscaldamento quando la temperatura esterna superava i 18 gradi. E questo non perché Abbenay fosse priva di energia elettrica — non lo era affatto, grazie alle turbine a vento e ai generatori basati sulla differenza di temperatura tra la superficie e l’interno della terra, usati per il riscaldamento — ma perché il principio dell’economia organica, così essenziale per il funzionamento della società, non poteva fare a meno di ripercuotersi profondamente sulla sua etica ed estetica. «L’eccesso è escremento» aveva scritto Odo nella Analogia. «L’escremento ritenuto entro il corpo è veleno».
Abbenay non aveva veleni: una città spoglia, luminosa, dai colori chiari e duri, dall’aria pura. Era tranquilla. Si poteva vederla tutta, larga e distesa come il sale versato.
Nulla era nascosto.
Le piazze, le strade austere, i bassi edifici, i cortili delle botteghe privi di muri di cinta, erano carichi di vitalità e di attività. Mentre Shevek passava, era continuamente consapevole della presenza di altre persone che camminavano, passavano, voci che gridavano, bisbigliavano, cantavano, gente viva, gente che faceva delle cose, che camminava a piedi. Botteghe e fabbriche si affacciavano su piazze o sui propri cortili aperti, e le loro porte erano spalancate. Passò davanti a una vetreria: l’uomo che vi lavorava pescò un grossa bolla di vetro fuso con la noncuranza con cui un cuoco serve un cucchiaio di minestra. Accanto alla vetreria c’era un largo cortile in cui veniva gettata la pomice artificiale. Il capo della squadra, una donna grande, con un grembiule tutto bianco di polvere, stava controllando il riempimento della forma con un flusso verbale forte e variopinto. Dopo, vennero una piccola fabbrica di fil di ferro, una lavanderia distrettuale, la bottega di un liutaio dove gli strumenti musicali venivano costruiti e riparati, il distributorio distrettuale di piccole merci, un teatro, una fabbrica di tegole. L’attività che si svolgeva in ciascuno di questi luoghi era affascinante, e quasi sempre esposta in piena vista. Intorno ai lavoratori si muovevano bambini, alcuni occupati ad aiutare gli adulti, altri fra i piedi, a fare torte di fango, altri ancora intenti a giocare per la strada, una bambina appollaiata sul tetto del centro d’apprendimento, con il naso affondato in un libro. Il fabbricante di filo aveva decorato l’architrave con figure di viticci in filo dipinto, allegri e ornati. L’espio sione di vapore e di chiacchiere provenienti dalle porte spalancate della lavanderia colpiva come un pugno. Nessuna porta era sbarrata, poche erano chiuse. Non c’erano cose celate e non c’erano avvisi pubblicitari. Era tutto aperto: tutto il lavoro, tutta la vita della città, aperti all’occhio e alla mano. E di tanto in tanto, lungo la Strada della Stazione, giungeva una cosa, dondolando e suonando una campanella: un veicolo pieno zeppo di gente, altra gente appesa come festoni a sbarre sulla sua parte esterna, vecchie donne che imprecavano vivacemente se dimenticava di rallentare alla loro fermata in modo che esse potessero uscire, un bambino piccolo, su un triciclo fatto in casa, che lo rincorreva follemente, scintille elettriche che piovevano azzurre dai fili sospesi in alto, agli incroci; come se la tranquilla e profonda vitalità delle strade si accumulasse di tanto in tanto su qualche punta di scarica e colmasse la distanza con uno schianto, una scintilla azzurrina e il puzzo di ozono. Erano gli omnibus di Abbenay, e quando passavano veniva il desiderio di salutarli con la mano.