Shevek si trovò, pertanto, senza altre occupazioni che la preparazione dei suoi tre corsi; il resto del tempo era completamente suo. Non si era mai trovato in una situazione simile da quando aveva vent’anni o poco più, nei suoi primi anni all’Istituto di Abbenay. Dopo quell’epoca, la sua vita sociale e personale era diventata sempre più complicata ed esigente. Egli era stato non soltanto un fisico, ma anche un compagno, un padre, un Odoniano, e infine un riformatore sociale. E in quanto tale non era stato protetto, né si era aspettato protezione, dalle cure e dalle responsabilità che gli toccavano. Non era stato libero da alcuna cosa: era stato soltanto libero di fare ogni cosa. Qui avveniva l’inverso. Come tutti gli altri studenti e i professori, egli non aveva altro da fare che il suo lavoro intellettuale: nulla, letteralmente nulla, del resto. I letti venivano rifatti per loro, le stanze venivano spazzate per loro, ogni lavoro relativo alla loro permanenza veniva svolto da altri, veniva loro resa agevole la strada. E niente moglie, niente famiglia. Nessuna donna. Gli studenti dell’Università non avevano il permesso di sposarsi. I professori sposati di solito abitavano nei cinque giorni di lezione della settimana in appartamenti per scapoli, nell’area accademica, e andavano a casa soltanto per il fine settimana. Nulla che potesse distrarre. Completa tranquillità per lavorare; tutto il materiale a portata di mano; stimoli intellettuali, discussioni, conversazioni quanto si voleva; nessuna pressione. Il vero paradiso! Ma egli non pareva capace di mettersi al lavoro.
C’era qualcosa che mancava… in lui, si disse, non nell’ambiente. Egli non ne era all’altezza. Non era abbastanza forte per accettare ciò che gli veniva offerto con tanta generosità. Si sentiva prosciugato e arido, come una pianta del deserto, in questa bellissima oasi. La vita su Anarres l’aveva cauterizzato, aveva serrato ermeticamente la sua anima; le acque della vita sgorgavano tutt’intorno a lui, ma egli non riusciva a bere.
Si costrinse a lavorare, ma anche nel lavoro non trovò alcuna certezza. Gli pareva di avere perso l’intuito che, quando egli provava a dare un giudizio di se stesso, gli pareva costituire il suo vantaggio su molti altri fisici, il senso di dove stesse il problema veramente importante, l’indizio che conduceva all’interno, verso il centro. Qui, non gli pareva di avere alcun senso della direzione. Egli lavorò al Laboratorio di Ricerca, lesse molto, e scrisse tre articoli nel corso dell’estate e dell’autunno: un mezzo anno molto produttivo, secondo il suo metro normale. Ma sapeva che in realtà non aveva fatto nulla di concreto.
In verità, quanto più egli viveva su Urras, tanto meno concreto il pianeta diveniva per lui. Gli pareva che gli sfuggisse di mano: il mondo vitale, magnifico, inesauribile che egli aveva visto dalle finestre della stanza il suo primo giorno sul pianeta. Scivolava via dalle sue mani goffe, forestiere, lo eludeva: e quando egli provava di nuovo a guardare, teneva in mano qualcosa di molto diverso, qualcosa ch’egli non aveva mai desiderato: fatto di carta straccia, involucri, spazzatura.
Riceveva denaro per gli articoli che scriveva. Già aveva in un conto della Banca Nazionale le 10.000 Unità Monetarie Internazionali del Premio Seo Oen, e una borsa di 5000 del Governo lotico. Quella somma venne ora aumentata dal suo stipendio di professore e dal denaro a lui pagato dalle Edizioni Universitarie per le tre monografie. Dapprima tutto ciò gli parve ridicolo; poi lo turbò. Non doveva respingere in blocco, con la scusa che era ridicola, una cosa che dopotutto aveva un’importanza soverchiante su Urras. Cercò di leggere un testo elementare di economia; lo trovò noioso in modo insopportabile, come ascoltare qualcuno che raccontasse interminabilmente un sogno lungo e stupido. Non riusciva a costringersi a capire come funzionavano le banche e così via, poiché le operazioni del capitalismo erano altrettanto prive di significato, ai suoi occhi, quanto i riti di una religione primitiva: altrettanto barbariche, altrettanto complicate e innecessarie. In un sacrificio umano agli dèi ci poteva almeno essere una terribile, malintesa bellezza; nei riti dei cambiavalute, in cui si dava per assodato che l’ingordigia, l’ignavia e l’invìdia fossero gli unici moventi degli atti umani, perfino il terribile diveniva banale. Shevek osservò con disprezzo questa mostruosa meschinità, senza interesse. Egli non ammise, non poté ammettere, che in verità lo spaventava.
Saio Pae l’aveva accompagnato a «fare acquisti» nel corso della sua seconda settimana in A-Io. Anche se non aveva intenzione di tagliarsi i capelli — i capelli, dopotutto, facevano parte di lui — egli desiderava un abito alla moda urrasiana e un paio di scarpe. Non aveva intenzione di apparire più straniero del minimo indispensabile. La semplicità del suo vecchio abito lo rendeva chiaramente un’ostentazione, e i suoi morbidi, rozzi stivali da deserto apparivano davvero strambi, in mezzo alle fantasiose calzature iotiche. Così, dietro sua richiesta, Pae l’aveva accompagnato nella Passeggiata Saemtenevia, la strada dei negozi eleganti di Nio Esseia, da un sarto e da un calzolaio.
L’intera esperienza era risultata così sbalorditiva per lui, che se l’era cancellata di mente non appena possibile; ma aveva continuato per mesi a sognarla, ad avere incubi. La Saemtenevia era lunga due miglia, ed era una massa compatta di persone, di traffico e di cose: cose da comprare, cose da vendere. Soprabiti, vestiti, gonne, giacche, calzoni, calzoncini, camicie, bluse, cappelli, scarpe, calze, sciarpe, scialli, panciotti, mantelli, ombrelli, vestiti da indossare mentre si dormiva, mentre si nuotava, mentre si giocava a qualche gioco, a un ricevimento pomeridiano, a un ricevimento serale, a un ricevimento in campagna, in viaggio, a teatro, in sella ai cavalli, facendo giardinaggio, ricevendo gli ospiti, andando in barca, andando a cena, andando a caccia, tutti diversi, tutti in centinaia di taglie, modelli, colori, spessori, materiali. Profumi, orologi, lampade, statuine, cosmetici, candele, quadri, macchine fotografiche, passatempi, vasi, sofà, bricchi, rompicapi, cuscini, bambole, colini, gualdrappe, gioielli, tappeti, stuzzicadenti, calendari, un sonaglino da neonato in platino con impugnatura di cristallo di rocca, una macchina elettrica per fare la punta alle matite, un orologio da polso con i numeri di diamante; figurette e ricordi e gingilli e non mi scordare e fronzoli e carabattole, ogni cosa inutile fin dall’inizio, o talmente ornamentata da nasconderne l’uso; ettari di articoli di lusso, ettari di escrementi. Al primo isolato Shevek si era fermato per dare un’occhiata a un soprabito peloso, maculato, esibizione centrale di una lucente vetrina di abiti e gioielli. — Quel soprabito costa 8400 unità? — domandò incredulo, poiché recentemente aveva letto in un giornale che il «salario medio» era di circa 2000 unità all’anno. — Oh, certo, è pelliccia naturale, molto rara oggi che gli animali sono protetti — aveva detto Pae. — Bel mantello, vero? Le donne amano le pellicce. — Ed erano andati avanti. Dopo un altro isolato, Shevek si era sentito completamente esausto. Non poteva più guardare. Avrebbe voluto chiudersi gli occhi.
E la cosa più strana, riguardo alla strada degli incubi, era che nessuna cosa, dei milioni che vi erano contenute, veniva fatta laggiù. Dov’erano le botteghe, le fabbriche, dov’erano i contadini, gli artigiani, i minatori, i tessitori, i chimici, gli scultori, i tintori, i disegnatori, i meccanici, dove erano le mani, le persone che producevano? Fuori vista, da qualche altra parte. Dietro muri. Tutte quelle persone, in ciascuno dei negozi, erano o compratori o venditori. Non avevano altra relazione con le cose se non quella del possesso.
Venne a sapere che una volta date le sue misure, egli poteva ordinare per telefono ogni altra cosa che gli occorreva, e decise di non tornare mai più alla strada dell’incubo.
Il vestito e le scarpe gli vennero consegnati nel giro di una settimana. Egli li indossò e si mise davanti allo specchio della camera da letto, lungo fino al pavimento. La giacca lunga e aderente, grigia, la camicia bianca, i calzoni neri a mezza gamba, i calzettoni e le scarpe lucide si adattavano bene alla sua lunga, sottile figura e ai suoi piedi sottili. Si chinò a toccare con circospezione la superficie di una scarpa. Era fatta dello stesso materiale che ricopriva le poltrone dell’altra stanza, il materiale che al tatto pareva pelle; aveva chiesto a qualcuno, recentemente, che cosa fosse, e gli era stato risposto che si trattava veramente di pelle: pelle di animale, o cuoio, come veniva chiamata. Aggrottò la fronte a quel contatto, si raddrizzò e voltò le spalle allo specchio, ma non prima di essere costretto a riconoscere che, così vestito, la somiglianza con sua madre Rulag era più forte che mai.