Pausa. — Dunque, sono in pericolo?
— Non s’è accorto neppure di questo?
Altra pausa.
— Riguardo a chi, precisamente, intende avvertirmi? — chiese Shevek.
— Riguardo a Pae, in primo luogo.
— Oh, sì, Pae. — Shevek appoggiò le mani sulla cappa scolpita, intarsiata in oro, del caminetto. — Pae è un ottimo fisico. È molto servizievole. Ma non mi fido di lui.
— Perché?
— Be’… evade.
— Sì. Un giudizio psicologico molto acuto. Ma Pae non è pericoloso per lei perché è una persona sfuggente, Shevek. Pae è pericoloso perché è un agente leale e ambizioso del Governo lotico. Fa rapporto su di lei, e su di me, con regolarità, al Ministero della Sicurezza Nazionale… la polizia segreta. Non intendo sottovalutare le sue capacità, Shevek, Dio sa, ma lei non si accorge che la sua abitudine di accostarsi a ciascun individuo come a una persona, un individuo a sé, non funziona, qui, non può funzionare? Lei deve comprendere i poteri che stanno alle spalle dei singoli individui.
Mentre Chifoilisk parlava, l’atteggiamento rilassato di Shevek si era irrigidito; adesso stava dritto come Chifoilisk, e fissava il fuoco. Disse: — Come fa a sapere di Pae?
— Esattamente come so che la sua stanza, Shevek, contiene un microfono nascosto, al pari della mia. Lo so perché è il mio mestiere saperlo.
— Anche lei è un agente del suo governo?
Il volto di Chifoilisk si abbassò; poi egli si voltò bruscamente verso Shevek, e disse piano, con odio: — Sì, naturalmente. Se non lo fossi, non sarei qui. Lo sanno tutti. Il mio governo invia all’estero soltanto persone delle quali si può fidare. E di me si fida! Perché io non mi sono lasciato comprare, come tutti questi maledetti ricchi professori iotici. Io credo nel mio governo, nel mio paese. Ho fede in loro. — Forzava le parole a uscire, come in una specie di tormento. — Lei deve guardarsi intorno, Shevek! Lei è come un bambino in mezzo ai ladri. Sì, sono gentili con lei, le danno una bella stanza, lezioni da tenere, studenti, denaro, visite ai castelli, visite alle fattorie modello, visite ai graziosi paesini. Soltanto il meglio di ogni cosa. Tutto bello, graziosissimo! Ma per quale motivo? Perché l’hanno portata qui dalla Luna, le fanno dei complimenti, le stampano i libri, la tengono così bene nella bambagia, al calduccio, in aule scolastiche e laboratori e biblioteche? Crede che lo facciano per disinteresse scientifico, per amore fraterno? Qui siamo in una economia di profitto, Shevek!
— Lo so. E sono venuto per contrattare con essa.
— Contrattare? Dare cosa?… E in cambio di che?
Il volto di Shevek aveva assunto la stessa espressione fredda, grave, che aveva nel lasciare il Forte di Drio. — Lei sa che cosa voglio, Chifoilisk. Voglio che il mio popolo esca dall’esilio. Sono venuto qui perché non credo che vogliate la stessa cosa, in Thu. Voi avete paura di noi, laggiù. Voi temete che noi possiamo riportare in vita la rivoluzione, la vecchia rivoluzione, quella vera, la rivoluzione per la giustizia che voi avete cominciato e poi fermato a mezza via. Qui nell’A-Io hanno meno paura di me, perché hanno dimenticato la rivoluzione. Qui non credono più ad essa. Qui pensano che quando il popolo può possedere abbastanza cose, è contento di vivere in prigione. Ma io non lo crederò mai. Io voglio che i muri cadano. Io voglio la solidarietà, la solidarietà umana. Voglio il libero scambio tra Urras e Anarres. Ho lavorato per esso come ho potuto su Anarres, ora lavoro per esso come posso su Urras. Laggiù ho agito. Qui, scambio.
— Che cosa?
— Oh, lei lo sa, Chifoilisk — disse Shevek con voce bassa, in tono diffidente. — Lei lo sa, cosa vogliono da me.
— Sì, lo so, ma non credevo che lo sapesse lei — disse il thuviano, parlando anch’egli a voce bassa; la sua voce roca divenne un mormorio ancora più roco, tutto respiro e fricative. — Ci è arrivato, allora… la Teoria Generale Temporale?
Shevek lo fissò, forse con una punta di ironia.
Chifoilisk insistette: — Esiste già in forma scritta?
Shevek continuò a fissarlo per un lungo istante, e poi rispose direttamente alla domanda: — No.
— Ottimamente!
— Perché?
— Perché se esistesse, l’avrebbero già presa.
— Cosa intende dire?
— Esattamente ciò che ho detto. Senta, non è stata proprio Odo a dire che dove c’è proprietà c’è furto?
— «Per fare un ladro, fai un padrone; per creare un crimine, crea delle leggi.» L’organismo sociale.
— Bene. Dove ci sono degli scritti in una camera chiusa a chiave, là ci sono delle persone con le chiavi della serratura!
Shevek fece una smorfia. — Sì — disse infine, — è una cosa molto spiacevole.
— Spiacevole per lei. Non per me. Io non ho i suoi scrupoli morali individualistici, lei lo sa. Sapevo già che non ha una copia scritta della Teoria. Se avessi creduto diversamente, avrei fatto qualsiasi sforzo per averla, con la persuasione, con il furto, o con la forza, se avessi pensato di poterla rapire senza entrare in guerra con l’A-Io. Qualsiasi cosa, pur di toglierla a questi grassi capitalisti iotici e di consegnarla al Presidio Centrale del mio paese. Poiché la più alta causa che io possa servire sono la potenza e il bene del mio paese.
— Lei mente — disse Shevek, tranquillo. — Io credo che lei sia un patriota, sì. Ma lei colloca al di sopra del patriottismo il suo rispetto per la verità, la verità scientifica, e forse anche la sua lealtà verso le singole persone. Lei non mi tradirebbe.
— Lo farei, se potessi — disse Chifoilisk, violentemente. Fece per dire qualcosa, s’interruppe, e infine disse, con rabbia e rassegnazione: — La pensi come crede. Io non posso spalancarle gli occhi per lei. Ma, ricordi, noi la desideriamo. Se una volta o l’altra arriverà a vedere cosa succede quaggiù, venga in Thu. Lei ha scelto le persone sbagliate per cercare di farne i suoi fratelli! E se… no, non spetta a me dirlo. Comunque, non conta… se non vuole venire da noi in Thu, almeno non dia la sua Teoria agli iotici. Non dia niente agli usurai! Se ne vada. Torni a casa. Dia al suo popolo ciò che ha da dare!
— Il mio popolo non lo vuole — disse Shevek, senza alcuna particolare inflessione. — Crede che non abbia già provato?
Quattro o cinque giorni più tardi, Shevek, che aveva chiesto di Chifoilisk, venne a sapere che era tornato in Thu.
— Per non più tornare? Non mi aveva detto di essere di partenza.
— Un thuviano non sa mai quando arriverà un ordine del suo Presidio — disse Pae, poiché, naturalmente, era stato Pae a riferirlo a Shevek. — L’unica cosa che sa, è che quando l’ordine arriva è meglio non perdere tempo. E non soffermarsi a prendere commiato per strada. Povero Chifoilisk! Mi chiedo cosa avrà fatto di sbagliato.
Shevek si recò una volta o due a visitare Atro nella sua bella casetta ai bordi dell’area universitaria; Atro vi abitava con un paio di servitori, vecchi quanto lui, che se ne prendevano cura. A quasi ottant’anni, era, come diceva lui stesso, un monumento a un fisico di prima categoria. Anche se non aveva visto finire nell’oblio il suo lavoro, come era successo a Garab, la semplice età gli aveva fatto raggiungere una condizione di disinteresse simile a quella della donna. Il suo interesse per Shevek, almeno, pareva essere completamente personale: una sorta di relazione cameratesca. Egli era stato il primo fisico Sequenziale convertito al modo di Shevek di accostarsi alla comprensione del tempo. Aveva combattuto, con le armi di Shevek, per le teorie di Shevek, contro l’intero corpus della rispettabilità scientifica, e la battaglia era durata per alcuni anni, fino alla pubblicazione di Princìpi della Simultaneità nella stesura integrale, seguita immediatamente dalla vittoria dei Simultaneisti. Quella battaglia era stata il punto culminante della vita di Atro. Egli non sarebbe stato disposto a combattere per qualcosa di meno che la verità, ma era stata la lotta ad essere amata da lui, più che la verità.
Atro poteva far risalire la propria genealogia per undici secoli, tra generali, principi, grandi latifondisti. La famiglia era tuttora proprietaria di un territorio di tremila ettari, con quattordici villaggi, nella provincia di Sie, la zona più rurale dell’A-Io. Egli aveva delle espressioni verbali provinciali, degli arcaismi che conservava con orgoglio. La ricchezza non gli faceva alcuna impressione, ed egli si riferiva al governo del paese dicendo che erano «demagoghi e politici senza spina dorsale». Il suo rispetto non era in vendita. Eppure egli lo dava, liberamente, a qualsiasi sciocco provvisto di quello che egli definiva «il giusto cognome». Per alcuni versi risultava assolutamente incomprensibile a Shevek… un enigma: l’aristocratico. Eppure il suo genuino disprezzo per il denaro e il potere faceva sì che Shevek lo trovasse più vicino a lui di ogni altra persona incontrata su Urras.