Una volta, mentre sedevano insieme nel porticato chiuso da vetrate in cui coltivava ogni tipo di fiori rari e fuori stagione, gli avvenne di usare la frase «noi Cetiani». Shevek la notò e gli chiese: — «Noi Cetiani»… non è una parola dei merli? — «Merli» era una parola del gergo giornalistico per indicare la stampa popolare, i quotidiani, le trasmissioni radio, la narrativa, fabbricati ad uso delle masse lavoratrici urbane.
— «Merli!» — ripeté Atro. — Mio caro amico, dove diavolo vai a pescare questi volgarismi? Con «Cetiani» intendo appunto ciò che gli scrittori dei quotidiani e i loro lettori, gente che muove ancora le labbra quando legge, intendono con questo termine. Urras e Anarres!
— Mi sorprendeva che tu usassi una parola straniera… una parola in-Cetiana, anzi.
— Definizione per esclusione — il vecchio si difese ridendo. — Cento anni fa non avevamo bisogno di questa parola. «Umanità» bastava. Ma le cose sono cambiate, una sessantina di anni fa. Avevo diciassette anni, era una bella giornata di sole all’inizio dell’estate, ricordo ancora perfettamente. Esercitavo il cavallo, e la mia sorella maggiore si sporse dalla finestra per gridare: «Stanno parlando con qualcuno venuto dallo Spazio Interstellare, per radio!». La mia povera cara mamma pensò che fossimo giunti alla fine: diavoli stranieri, capirai. Ma si trattava semplicemente degli Hainiti, che facevano grandi parole sulla pace e la fratellanza. Be’, oggi «umanità» è una parola che copre un campo un po’ troppo vasto. Che cosa definisce la fratellanza se non la non-fratellanza? Definizione per esclusione, mio caro! Noi due siamo parenti. I tuoi antenati probabilmente menavano a brucare le capre nelle montagne mentre i miei opprimevano servi a Sie, alcuni secoli fa; ma siamo membri della stessa famiglia. Per accorgersene, basta solo incontrare… o ascoltare… uno straniero. Un essere di un altro sistema solare. Un uomo, cosiddetto, che non ha nulla in comune con noi ad eccezione della disposizione pratica di due gambe, due braccia e una testa con una specie di cervello dentro!
— Ma gli Hainiti non hanno dimostrato che siamo…
— Tutti di origine straniera, figli dei coloni interstellari Hainiti, mezzo milione di anni fa, o un milione, o due o tre milioni, sì, lo so. «Dimostrato»! Per il Numero Primario, Shevek, mi sembri una matricola al primo esame! Come puoi parlare seriamente di testimonianze storiche, lungo un intervallo di tempo così vasto? Quegli Hainiti lanciano in aria i millenni come se fossero palle di gomma, ma la loro è soltanto l’arte del giocoliere. «Dimostrazione»! Nientemeno. La religione dei miei padri mi informa con uguale autorevolezza che io sono discendente di Pinra Od, che Dio esiliò dal Giardino poiché aveva avuto l’ardire di contarsi le dita delle mani e dei piedi, sommandole fino a venti, e così scatenando il Tempo sull’universo. E io preferisco questa storia a quella degli Hainiti, se devo scegliere!
Shevek rise; l’allegria di Atro gli dava piacere. Ma il vecchio era serio. Picchiò sul braccio di Shevek, e, aggrottando le sopracciglia e torcendo le labbra come sempre faceva quando parlava con convinzione, disse: — Spero che tu provi gli stessi sentimenti, mio caro. Lo spero sinceramente. Ci sono molte cose ammirevoli, ne sono certo, nella tua società, ma essa non vi insegna ad operare delle distinzioni… cosa che, dopotutto, è la migliore che ci insegni la civiltà. Non voglio che quei maledetti stranieri giungano a fare breccia in te servendosi dei tuoi concetti sulla fratellanza e l’assistenza mutua e così via. Ti rovesceranno addosso interi fiumi di «umanità comune» e «lega di tutti i mondi» e così via, e mi spiacerebbe che li trangugiassi interi. La legge dell’esistenza è la lotta, la competizione, l’eliminazione del debole… una guerra spietata per la sopravvivenza. E io desidero che siano i migliori a sopravvivere. Il tipo di umanità che conosco. I Cetiani. Noi due: Urras e Anarres. Noi siamo davanti a loro, ora come ora; a tutti quegli Hainiti e Terrestri e come altro si chiamano, e dobbiamo continuare a stare in testa. Sono stati loro a portarci il viaggio interstellare, ma le navi interstellari che noi costruiamo oggi sono migliori delle loro. Quando arriverai a pubblicare la tua teoria, spero sinceramente che tu pensi al tuo dovere nei riguardi del tuo popolo, della tua razza. A quel che significa la lealtà, e a chi è dovuta. — Le facili lacrime della vecchiaia erano sorte negli occhi quasi ciechi di Atro. Shevek posò la mano sul braccio dell’uomo più anziano, per rassicurarlo, ma non disse nulla.
— Anch’essi avranno la Teoria, naturalmente. A suo tempo. E meritano di averla. La verità scientifica si diffonderà, non puoi nascondere il sole sotto un sasso. Ma prima che la abbiano, voglio che la paghino! Voglio che noi abbiamo il posto che ci spetta. Voglio il rispetto: ed è questo, ciò che tu ci puoi ottenere. Il trasporto istantaneo… se noi divenissimo padroni del trasporto istantaneo, il loro motore interstellare non varrebbe più un fagiolo. E non è il denaro che voglio, lo sai. Voglio che la superiorità della scienza Cetiana sia riconosciuta, la superiorità della mente Cetiana. Se ci dev’essere una civiltà interstellare, allora, per Dio, non voglio che il mio popolo sia un suo membro di bassa casta! Noi dobbiamo entrarci come dei grandi signori, con un grande dono nelle mani… così deve essere. Bene, bene, a volte mi scaldo un po’ su queste cose. E, detto per inciso, come va il tuo libro?
— Ho lavorato sull’ipotesi gravitazionale di Skask. Ho l’impressione che si sbagli nell’usare soltanto equazioni differenziali parziali.
— Ma anche il tuo ultimo articolo era sulla gravità. Quando ti deciderai a dedicarti alla cosa importante?
— Sai che per noi Odoniani i mezzi sono il fine — disse Shevek, in tono leggero. — Inoltre, non posso presentare una teoria del tempo che trascuri la gravità, non ti pare?
— Vuoi dire che ce la dai a pezzi e bocconi? — chiese Atro, con sospetto. — Non mi era venuto in mente. Farò meglio a riguardare quel tuo ultimo articolo. Alcune sue parti non mi erano molto chiare. Mi si stancano così tanto gli occhi, di questi tempi. Credo che quel maledetto affare ingranditore proiettore che devo usare per leggere si sia guastato. Non mi pare che proietti chiaramente le parole.
Shevek fissò il vecchio fisico con rimorso e affezione, ma non gli disse altro sullo stato della sua teoria.
Inviti a ricevimenti, dediche, inaugurazioni e così via venivano recapitati a Shevek quasi ogni giorno. Egli si recò ad alcuni, poiché era venuto su Urras con una missione, e doveva cercare di svolgerla: doveva promuovere l’idea di fraternità, doveva rappresentare, con la sua stessa persona, la solidarietà dei due Pianeti. Egli parlava, e la gente lo ascoltava e diceva: — Ha proprio ragione.
Si chiese perché il governo non gli impedisse di parlare. Chifoilisk doveva avere esagerato, in vista dei propri interessi, la portata del controllo e della censura che potevano esercitare. Egli parlava parole di pura anarchia, ed essi non lo fermavano. Ma avevano davvero bisogno di fermarlo? Gli pareva ogni volta di parlare alle stesse persone: ben vestite, ben nutrite, beneducate, sorridenti. Era quello l’unico tipo di persone esistente su Urras? — È il dolore, che porta gli uomini ad unirsi — diceva Shevek, ritto davanti a loro, ed essi annuivano e dicevano: — Ha proprio ragione.
Cominciò a odiarli, e, quando se ne accorse, smise da un giorno all’altro di accettare i loro inviti.