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Ma questo era accettare il fallimento e accrescere il suo isolamento. Egli non stava facendo ciò che era venuto a fare. Non erano stati gli altri a isolarlo, si disse; era stato — come sempre — egli stesso a isolarsi da loro. Egli era solo, soffocantemente solo, tra tutte le persone che vedeva ogni giorno. Il guaio era che non era in contatto. Egli sentiva di non avere toccato nulla, nessuno, su Urras in tutti quei mesi.

Nel Refettorio degli Anziani di Facoltà, a tavola, una sera disse: — Sapete, non so come vivete, qui. Vedo le case private, sì, ma dall’esterno. Dall’interno conosco solo la vostra vita non privata… sale di riunione, refettori, laboratori…

Il giorno successivo, Oiie, un po’ rigidamente, chiese a Shevek se voleva venire a cena e fermarsi per la notte, il prossimo fine settimana, a casa sua.

La casa era situata ad Amoeno, un paese a poche miglia da Ieu Eun, ed era, per il metro urrasiano, una modesta casa della classe media, forse più antica del normale. Era stata costruita circa trecento anni prima, in pietra, con stanze dai pannelli di legno. Il doppio arco caratteristico iotico compariva nelle finestre e nelle porte. Una relativa mancanza di mobili piacque subito a Shevek: le stanze avevano un aspetto austero, spazioso, con le loro grandi distese di pavimenti lucidi e profondi. Si era sempre sentito a disagio fra le decorazioni eccessive e l’arredo degli edifici pubblici in cui si tenevano i ricevimenti, le inaugurazioni e così via. Gli urrasiani avevano molto gusto, ma spesso questo gusto pareva in conflitto con un impulso verso l’ostentazione, verso la spesa elevata. L’origine naturale, estetica del desiderio di possedere cose veniva nascosta, pervertita dalle pressioni economiche e competitive, che a loro volta emergevano sotto forma di qualità delle cose: così tutto ciò che raggiungevano era una specie di meccanica prodigalità. Qui invece c’era della grazia, raggiunta mediante la limitazione.

Un servitore prese loro il cappotto all’ingresso. Giunse la moglie di Oiie, a salutare Shevek, dalla cucina seminterrata, dove stava dando ordini al cuoco.

Parlando prima di pranzo, Shevek scoprì di rivolgere la parola quasi esclusivamente alla donna, con un’amichevolezza, un desiderio di esserle simpatico, che sorprese lui per primo. Ma era così bello parlare di nuovo con una donna! Niente di strano che la propria esistenza gli fosse parsa isolata, artificiale, tra uomini, sempre tra uomini, priva della tensione e dell’attrazione della differenza sessuale. E Sewa Oiie era attraente. Osservando le linee delicate della nuca e delle tempie, egli dimenticò le proprie obiezioni alla moda urrasiana di radere la testa femminile. Sewa era reticente, piuttosto timida; egli cercò di farla sentire a proprio agio con lui, e rimase assai compiaciuto quando gli parve di esserci riuscito.

Si avviarono per il pranzo e vennero raggiunti a tavola da due bambini. Sewa Oiie disse, a mo’ di scusa: — Sa, non si riescono più a trovare bambinaie decenti, da questa parte del paese. — Shevek annuì, senza sapere che cosa fosse esattamente una bambinaia. Osservava i bambini con lo stesso sollievo, lo stesso diletto di sempre. Non aveva più visto bambini da quando aveva lasciato Anarres.

Erano bambini molto puliti, posati, che parlavano quando si rivolgeva loro la parola, vestiti in giacchetta azzurra di velluto e calzoni corti. Adocchiarono Shevek con timore, come se si fosse trattato del Mostro Venuto dallo Spazio. Il bambino di nove anni si comportava in modo severo con quello di sette; gli mormorò di non fissare l’ospite, lo pizzicò selvaggiamente quando gli disobbedì. Il più piccolo gli restituì il pizzicotto e cercò di dargli un calcio da sotto la tavola. Il Principio della Superiorità non pareva ancora instaurato bene nella sua mente.

Oiie, a casa, era un uomo completamente diverso. Lo sguardo reticente scompariva dalla sua faccia; non strascicava le parole. La famiglia lo trattava con rispetto, ma nel rispetto c’era reciprocità. Shevek aveva ascoltato in abbondanza le opinioni di Oiie sulle donne, e si sorprese nel vedere che trattava la moglie con cortesia, perfino con delicatezza. «Questa è cavalleria» pensò Shevek, che aveva imparato recentemente la parola, ma presto si disse che era qualcosa di migliore. Oiie era affezionatissimo alla moglie, e ne aveva la massima fiducia. Si comportava con lei e con i bambini nel modo in cui avrebbe potuto comportarsi un anarresiano. In effetti, a casa, egli d’un tratto si rivelava come un tipo semplice e fraterno di uomo, un uomo libero.

Parve a Shevek un ambito di libertà molto piccolo, una famiglia molto piccola, ma si sentiva così bene, così libero anch’egli, che non provava desiderio di criticare.

In una pausa della conversazione, il bambino più piccolo disse con la sua voce chiara, piccola: — Il signor Shevek non sa bene le buone maniere.

— Come mai? — chiese Shevek, prima che la moglie di Oiie facesse in tempo a sgridare il bambino. — Che cosa ho fatto?

— Non ha detto grazie.

— E di che cosa?

— Quando le ho passato il piatto dei sottaceti.

— Ini! Stai bravo!

Sedik! Non egoizzare! Il tono era esattamente lo stesso.

— Pensavo che tu li stessi dividendo con me. Erano invece un dono? Noi diciamo grazie soltanto per i doni, al mio paese. Ci dividiamo le altre cose senza neppure parlarne, sai. Vuoi che ti ridia i sottaceti?

— No, non mi piacciono — disse il bambino, alzando gli occhi scuri, molto luminosi, sul volto di Shevek.

— Questo rende particolarmente agevole condividerli — disse Shevek. Il bambino maggiore fremeva dal desiderio represso di pizzicare Ini, ma Ini si mise a ridere, mostrando i piccoli denti bianchi. Dopo qualche tempo, nel corso di una pausa, disse con voce bassa, piegandosi verso Shevek: — Le piacerebbe vedere la mia lontra?

— Certo.

— È nel giardino. Mamma l’ha messa fuori perché pensava che potesse darle fastidio. Alcuni grandi non amano gli animali.

— A me piace vederli. Non abbiamo animali, nel mio paese.

— No? — disse il bambino maggiore, fissandolo ad occhi spalancati. — Babbo! Il signor Shevek dice che non hanno animali!

Anche Ini lo fissò ad occhi spalancati. — Ma che cosa avete?

— Gente. Pesci. Vermi. E alberi di holum.

— Che cosa sono gli alberi di holum?

La conversazione andò avanti per mezz’ora. Era la prima volta che a Shevek era stato chiesto, su Urras, di descrivere Anarres. I bambini rivolgevano le domande, ma i genitori ascoltavano con interesse. Shevek si tenne scrupolosamente lontano dal modello etico; non era venuto per fare opera di proselitismo sui figli del proprio ospite. Semplicemente, spiegò loro com’era la Polvere, che aspetto aveva Abbenay, che tipo di abiti si portava, che cosa faceva la gente quando voleva un nuovo abito, che cosa facevano i bambini a scuola. Quest’ultima parte divenne propaganda, nonostante le sue intenzioni. Ini e Aevi erano affascinati dalla sua descrizione di una scuola che comprendeva giardinaggio, falegnameria, recupero, tipografia, riparazione di impianti idraulici, riparazione della strada, drammaturgia, e tutte le altre occupazioni della comunità degli adulti, e dalla sua ammissione che nessuno veniva mai punito per alcunché.

— Anche se a volte — egli disse, — ti fanno andare avanti per conto tuo per un certo periodo di tempo.

— Ma che cos’è — disse d’improvviso Oiie, come se la domanda, trattenuta per molto tempo, gli venisse fuori sotto pressione, — che cos’è che tiene in ordine la gente? Perché non si derubano e non si ammazzano tutti?

— Nessuno possiede alcunché che si possa rubare. Se uno vuole una cosa, la prende dal deposito. E per quanto riguarda la violenza, be’, non saprei, Oiie; lei pensa che proverebbe desiderio di uccidermi, ordinariamente? E se lo provasse, pensa che basterebbe una legge a fermarla? La coercizione non è il mezzo più efficace per ottenere l’ordine.

— D’accordo, ma come convincete la gente a fare i lavori sporchi?

— Che lavori sporchi? — chiese la moglie di Oiie, che aveva perso il filo.

— Raccogliere la spazzatura, seppellire i morti — disse Oiie; Shevek aggiunse: — Scavare il mercurio — e per poco non disse: «Lavorare la merda» ma ricordò il tabù iotico sulle parole scatologiche. Aveva meditato, fin dai primi tempi della sua permanenza su Urras, sul fatto che gli urrasiani vivevano tra montagne di escremento, ma non nominavano mai la merda.