— Be’, li facciamo tutti. Ma nessuno è costretto a farli per molto tempo, a meno che non ami quei lavori. Un giorno ogni decade, il comitato manutenzione della comunità o il comitato di isolato o chi altri ha bisogno può chiedere a una persona di unirsi a quei lavori; fanno delle liste a rotazione. Gli incarichi di lavoro spiacevoli, o quelli pericolosi come le miniere di mercurio e le macine, di solito durano soltanto mezzo anno.
— Ma allora l’intero personale sarà costituito di persone che stanno ancora imparando il lavoro.
— Sì. Non è molto efficiente, ma che altro si può fare? Non si può dire a un uomo di lavorare in un incarico che finirà per storpiarlo o per ucciderlo in pochi anni. Perché dovrebbe accettare?
— E può rifiutare l’ordine?
— Non è un ordine, Oiie. Egli va al Div-Lab… l’ufficio per la divisione del lavoro… e dice: «Voglio fare questo e quest’altro, che cosa potete darmi?» E laggiù gli dicono dove ci sono posti vuoti.
— Ma allora, come mai la gente accetta di fare i lavori sporchi? Perché accetta il ciclo del giorno su dieci?
— Perché quei lavori sono fatti insieme… e per altre ragioni. Deve sapere, la vita su Anarres non è ricca come qui. Nelle piccole comunità non ci sono molti intrattenimenti, e c’è un mucchio di lavoro da fare. Così, se uno lavora, per esempio, a un telaio meccanico, ogni dieci giorni è piacevole uscire all’aperto e posare un tubo o arare un campo, con un gruppo differente di persone… E poi c’è la sfida. Qui voi pensate che l’incentivo per il lavoro sia finanziario, il bisogno di denaro o il desiderio di profitto, ma dove non c’è denaro i veri motivi sono più chiari, forse. La gente ama fare le cose. Ama farle bene. La gente si assume i lavori duri, pericolosi, perché trae motivo d’orgoglio dal farli, perché può… «egoizzare», noi lo chiamiamo… mettersi in mostra?… con i più deboli. «Ehi, guardate qua, pivelli, come sono forte!» Capite? Una persona ama fare le cose che sa fare bene… In realtà, si tratta della questione dei mezzi e dei fini. Dopotutto, il lavoro viene fatto per amore del lavoro. È il piacere durevole della vita. La coscienza individuale lo sa. E anche la coscienza sociale, l’opinione dei vicini. Non c’è altra ricompensa, su Anarres, altra legge. Il proprio piacere, e il rispetto dei propri vicini. Nient’altro. Ed essendo così, vedete come l’opinione dei vicini divenga una forza davvero potente.
— Nessuno vi si oppone mai?
— Forse non abbastanza spesso — disse Shevek.
— Ciascuno lavora così duramente, dunque? — chiese la moglie di Oiie. — Che cosa succede a un uomo che, semplicemente, non vuole cooperare?
— Be’, si trasferisce. Gli altri si stancano di lui, sapete. Si fanno beffe di lui, o lo trattano male, lo battono; in una piccola comunità, possono mettersi d’accordo nel togliere il suo nome dalla lista dei pasti, in modo che debba cucinare e mangiare da solo; questo è umiliante. Così si trasferisce, e resta per un po’ di tempo in un altro luogo, e poi magari si trasferisce di nuovo. Alcuni continuano a farlo per tutta la vita. Nuchnibi, vengono chiamati. Io sono una specie di nuchnib. Sono qui perché sono fuggito dal mio incarico di lavoro. Mi sono spostato più degli altri. — Shevek parlava con tranquillità; se ci fu amarezza nella voce, i bambini non riuscirono a discernerla, né gli adulti a spiegarsela. Ma un breve silenzio fece seguito alle sue parole.
— Non so chi faccia i lavori sporchi qui — disse. — Non vedo mai nessuno che li faccia. È strano. Chi li fa? Perché li fa? Sono pagati di più?
— I lavori pericolosi, a volte. Per i lavori semplicemente manuali, no. Sono pagati meno.
— E perché li fanno, allora?
— Perché una paga bassa è migliore di niente paga — disse Oiie, e l’amarezza della sua voce fu pienamente avvertibile. La moglie cominciò a dire qualcosa, nervosamente, per cambiare argomento, ma Oiie continuò: — Mio nonno faceva il cameriere. Ha lavato pavimenti e cambiato lenzuola sporche in un albergo per cinquant’anni. Dieci ore al giorno, sei giorni la settimana. Lo faceva perché lui e la famiglia potessero mangiare. — Oiie s’interruppe bruscamente, e rivolse a Shevek il suo vecchio sguardo di riserbo, di diffidenza, e poi, quasi con aria di sfida, fissò la moglie. Ella non sostenne il suo sguardo. Sorrise e disse con voce nervosa, infantile: — Il padre di Demaere ebbe molto successo nella vita. Quando morì, possedeva quattro compagnie. — Aveva il sorriso di una persona in pena, e le sue mani sottili e abbronzate si stringevano fortemente una sull’altra.
— Non credo che abbiate uomini di successo, su Anarres — disse Oiie, con pesante sarcasmo. Poi giunse il cuoco per cambiare i piatti, e Oiie cessò immediatamente di parlare. Il bambino Ini, come se sapesse che i discorsi seri non sarebbero ripresi nel corso della permanenza del servitore nella stanza, disse: — Mamma, il signor Shevek può vedere la mia lontra alla fine del pranzo?
Quando tornarono in salotto, Ini ebbe il permesso di portare il suo animaletto: una lontra di terra non ancora completamente cresciuta, un animale molto comune su Urras. Erano state addomesticate, spiegò Oiie, fin dall’epoca preistorica, prima per servirsene per il riporto dei pesci, poi come animale da salotto. La creatura aveva gambe corte, schiena flessuosa e arcuata, pelame marrone scuro e lucente. Era il primo animale non in gabbia visto da Shevek a breve distanza, e aveva meno paura di quanta ne avesse Shevek. I denti bianchi e aguzzi erano impressionanti. Allungò la mano con cautela per strofinare la schiena dell’animale, come gli suggeriva Ini. La lontra si rizzò sulle zampe posteriori e lo fissò. I suoi occhi erano neri, spruzzati d’oro, intelligenti, curiosi, innocenti. — Ammar — bisbigliò Shevek, colpito da quello sguardo al di là del golfo dell’essere… — Fratello.
La lontra emise un suono, ritornò sulle quattro zampe ed esaminò con interesse le scarpe di Shevek.
— La trova simpatico — disse Ini.
— Anch’io — rispose Shevek, un po’ tristemente. Ogni volta che vedeva un animale, il volo degli uccelli, lo splendore degli alberi autunnali, la tristezza scendeva in lui e dava al piacere un orlo tagliente. Egli non pensava consciamente a Takver in quei momenti, non pensava alla sua assenza. Piuttosto, era come se Takver fosse presente anche se egli non pensava a lei. Era come se alla bellezza e alla bizzarria delle bestie e delle piante di Urras fosse stato affidato un messaggio per lui da parte di Takver, che non le avrebbe mai viste, i cui antenati per sette generazioni non avevano toccato la pelliccia tiepida di un animale o visto un frullo d’ali all’ombra degli alberi.
Passò la notte in una camera da letto sotto il cornicione. Era fredda, cosa, che gli piacque dopo l’eterno surriscaldamento delle stanze dell’Università, e molto alla buona: il letto, gli armadi dei libri, una cassapanca, una sedia e un tavolo di legno verniciato. Era come a casa, pensò, dimenticando l’altezza del letto e la morbidezza del materasso, le fini coperte di lana e le lenzuola di seta, le statuine di avorio sulla cassapanca, le rilegature in cuoio dei libri, e il fatto che la stanza, e ogni cosa in essa contenuta, e la casa di cui faceva parte, e il terreno su cui la casa sorgeva, erano proprietà privata, proprietà di Demaere Oiie, anche se egli non l’aveva costruita e non ne lavava i pavimenti. Shevek lasciò perdere queste fastidiose discriminazioni. Era una bella stanza, e non era poi tanto diversa da una stanza singola di un domicilio.
Dormendo in quella stanza, egli sognò di Takver. Sognò che era con lui nel letto, che le sue braccia erano intorno a lui, i loro corpi si stringevano… ma in che stanza, in che stanza erano? Dove erano? Erano sulla Luna insieme, faceva freddo, e camminavano accanto. Era un posto piatto, la Luna, tutto coperto di neve bianco-azzurrina, sebbene la neve fosse sottile e si potesse facilmente scostarla col piede per mostrare il luminoso terreno bianco. La Luna era morta, era un luogo morto. — Non è veramente così — egli diceva a Takver, accorgendosi che era intimorita. Stavano camminando verso qualcosa, una linea lontana, di una materia che pareva mobile e luccicante come plastica, una remota, quasi invisibile barriera che attraversava il bianco pianoro innevato. Nel suo cuore, Shevek aveva paura di avvicinarsi, ma disse ugualmente a Takver: — Presto lo raggiungeremo. — Lei non gli rispose.