CAPITOLO 6
Quando Shevek venne rimandato a casa dopo una decade trascorsa all’ospedale, il suo vicino della Stanza 45 venne a trovarlo. Era un matematico, molto alto e allampanato. Aveva uno strabismo divergente, cosicché non potevi mai essere certo se fosse lui a guardare te, o tu a guardare lui. Egli e Shevek coesistevano amichevolmente, a fianco a fianco nel dormitorio dell’Istituto, ormai da un anno, senza essersi mai rivolti una frase completa.
Desar ora entrò e fissò Shevek (o i punti al suo fianco). - Niente? — chiese.
— Mi sento bene, grazie.
— Portarti il pasto dal refettorio?
— Col tuo? — disse Shevek, influenzato dallo stile telegrafico di Desar.
— D’accordo.
Desar portò un vassoio con due pasti dal refettorio dell’Istituto, e mangiarono insieme nella stanza di Shevek. Lo fece nuovamente, mattino e sera, per tre giorni, finché Shevek non si sentì nuovamente in grado di muoversi. Era difficile capire perché Desar lo facesse. Non era un tipo amichevole, e i legami di fratellanza parevano significare poco, per lui. Una delle ragioni per le quali si teneva lontano dalla gente era quella di nascondere la propria disonestà; egli era stupefacentemente pigro o francamente proprietarista, poiché la Stanza 45 era piena di cose che non aveva diritto, o motivo, di tenere: piatti della mensa, libri di biblioteche, una scatola di arnesi per scolpire il legno, presi a un deposito di forniture per artigiani, un microscopio proveniente da qualche laboratorio, otto diverse coperte, un armadio pieno di abiti, alcuni dei quali, chiaramente, non erano della misura di Desar né lo erano mai stati, altri che dovevano essere le cose che metteva addosso quando aveva otto anni, dieci. Pareva ch’egli si recasse nei depositi e nei magazzini a prendere le cose a manciate, indipendentemente dal fatto che gli occorressero o no. — Perché tieni tutte quelle cianfrusaglie? — gli chiese Shevek, la prima volta che venne ammesso nella stanza. Desar fissò accanto a lui. — Boh, la roba si accumula da sola… — rispose, vagamente.
Il campo scelto da Desar nelle matematiche era talmente esoterico che nessuno, tanto nell’Istituto quanto nella Federativa di Matematica, avrebbe potuto controllare con coscienza di causa i suoi progressi. E questo era esattamente il motivo per cui Desar l’aveva scelto. Egli aveva dato per assodato che i motivi di Shevek fossero identici. — Diavolo — disse una volta, - lavoro? Bell’incarico, qui. Sequenza, Simultaneità, sterco. — Alcune volte Shevek provava simpatia per Desar, altre lo detestava, per gli stessi motivi. Rimase con lui, però, e deliberatamente, come parte della sua decisione di cambiare vita.
La malattia gli aveva fatto comprendere che se avesse cercato di andare avanti da solo sarebbe andato incontro a un crollo totale. Lo vedeva in termini morali, e si giudicava senza pietà. Aveva continuato a tenersi per se stesso, contrariamente all’imperativo etico della fratellanza. Shevek a ventun anni non era esattamente un pedante, con la sua moralità appassionata e severa; ma essa combaciava ancora con una matrice rigida, l’Odonianesimo semplicistico insegnato ai bambini da adulti mediocri, una predica interiorizzata.
Si era comportato male. Doveva comportarsi bene. E così fece.
Si proibì la fisica cinque sere su dieci. Si offrì per il lavoro di comitato nell’amministrazione dei domicili dell’Istituto. Presenziò alle riunioni della Federativa di Fisica e dell’Unione dei Membri dell’Istituto. Si iscrisse a un gruppo che praticava la retroazione biologica e il condizionamento delle onde cerebrali. In refettorio si costrinse ad accomodarsi a tavoli grandi, invece che a piccoli tavoli, con un libro davanti.
Fu una sorpresa: pareva che gli altri fossero lì ad aspettarlo. Lo prendevano con sé, gli davano il benvenuto, lo invitavano a dividere il letto e l’allegria. Lo portarono in giro con loro, e in tre decadi egli imparò più cose su Abbenay di quante non ne avesse imparate in un anno. Si recò con gruppi di persone giovani e allegre in campi sportivi, centri artistici, piscine, feste, musei, teatri, concerti.
I concerti: furono una rivelazione, una scossa di gioia.
Non si era mai recato a un concerto ad Abbenay, in parte perché pensava alla musica come a qualcosa che si fa, piuttosto che qualcosa che si ascolta. Da bambino aveva sempre cantato, o suonato uno strumento, nei cori e nei complessi locali; l’esperienza gli era sempre piaciuta, ma egli non aveva molto talento. E lì si fermavano le sue conoscenze musicali.
I centri di apprendimento insegnavano tutte le tecniche che preparavano alla pratica di una qualsiasi arte: insegnavano canto, metrica, danza, uso della spazzola, dello scalpello, del coltello, del tornio e così via. Tutto in modo pragmatico: i bambini imparavano a vedere, parlare, ascoltare, spostare, maneggiare. Non veniva fatta distinzione tra arte e artigianato; l’arte non veniva considerata come una cosa che avesse un suo posto nella vita, ma come una tecnica fondamentale della vita, come ad esempio la parola. In questo modo l’architettura aveva prodotto, fin dall’inizio, spontaneamente, uno stile coerente, puro e semplice, dalle proporzioni sottili. La pittura e la scultura servivano prevalentemente come elementi dell’architettura e della pianificazione urbana. Per quanto riguardava le arti delle parole, poesia e narrativa tendevano ad essere effimere, legate al canto e alla danza; solo il teatro risaltava con un posto tutto suo, e solo il teatro veniva chiamato «l’Arte», qualcosa di completo in se stesso. C’erano molti gruppi teatrali regionali e itineranti di attori e danzatori, gruppi di repertorio, spesso con il loro drammaturgo fisso. Recitavano tragedie, commedie su canovaccio, mimi. Erano accolti con la felicità con cui si accoglieva la pioggia nelle solitarie cittadine del deserto, erano l’evento dell’anno dovunque giungevano. Capace di racchiudere l’isolamento e la comunalità dello spirito anarresiano, e nato da essi, il teatro drammatico aveva raggiunto una forza e una luminosità straordinarie.
Shevek, tuttavia, non era molto sensibile al teatro. Gli piaceva lo splendore verbale, ma l’intera idea della recitazione non gli era molto congeniale. Soltanto in quel secondo anno ad Abbenay finalmente scoprì la sua Arte: l’arte che si fa usando come materiale il tempo. Qualcuno lo condusse a un concerto all’Unione Musicale. La sera successiva, egli vi ritornò. Si recò a tutti i concerti: con i suoi nuovi amici, se possibile, o anche da solo, all’occasione. La musica era un bisogno più pressante, una soddisfazione più profonda, dello stare insieme con altri.
I suoi sforzi per uscire dalla reclusione essenziale costituivano, in realtà, un insuccesso, ed egli lo sapeva. Non si fece alcun amico. Copulò con alcune ragazze, ma la copulazione non era la gioia che sarebbe dovuta essere. Era la semplice soddisfazione di un bisogno, come l’evacuazione, ed egli in seguito ne provava vergogna, poiché implicava il fatto di usare un’altra persona come un oggetto. La masturbazione era preferibile, ed era il corso più giusto per un uomo come lui. La solitudine era il suo destino; era intrappolato nella sua stessa eredità genetica. Lei l’aveva detto: «Il lavoro viene per primo.» Rulag l’aveva detto con calma, come per asserire una realtà di fatto, impotente a cambiarla, a uscire fuori della propria gelida cella. E lo stesso valeva per lui. Il suo cuore anelava verso di loro, le anime giovani e gentili che lo chiamavano fratello, ma egli non poteva raggiungerle, né esse potevano raggiungere lui. Era nato per essere solo, un maledetto, freddo intellettuale, un egoista.