Il lavoro veniva per primo, ma non portava a nulla. Come il sesso, sarebbe dovuto essere un piacere, e non lo era. Egli continuava a macinare gli stessi problemi, senza avvicinarsi di un passo alla soluzione del Paradosso Temporale di To, per non parlare poi della Teoria della Simultaneità, che l’anno precedente gli era parsa quasi a portata di mano. Quella sicurezza, oggi, gli sembrava incredibile. Si era davvero creduto capace, all’età di vent’anni, di sviluppare una teoria che avrebbe cambiato le fondamenta della fisica cosmologica? Doveva essere stato fuori di sé per vario tempo, prima della febbre, evidentemente. Si iscrisse a due gruppi di lavoro sulle matematiche filosofiche, convincendosi che ne aveva bisogno e rifiutandosi di ammettere che avrebbe potuto dirigere entrambi i corsi con la stessa capacità degli istruttori. Evitò Sabul quanto più poté.
Nella sua prima fiammata di nuovi propositi, si era riproposto di conoscere meglio Garab. La donna reagì come meglio poté, ma l’inverno era stato severo con lei; era malata, e sorda, e vecchia. Diede inizio a un corso primaverile, ma dovette poi lasciarlo. Era imprevedibile, una volta quasi non riconosceva Shevek, l’altra se lo trascinava in domicilio a parlare con lei tutta la sera. Shevek aveva già superato da tempo le posizioni di Garab, e trovava piuttosto faticose le chiacchierate serali. Era costretto a lasciare che Garab lo annoiasse per ore, con cose che egli già sapeva o che aveva dimostrato parzialmente scorrette, oppure doveva addolorarla e confonderla nel tentativo di condurla sulla giusta strada. La cosa era superiore alla pazienza e al tatto di qualsiasi persona della sua età, ed egli finì con l’evitare Garab quando poteva, e sempre con un rimorso di coscienza.
Non c’erano altre persone con cui parlare di lavoro. Nessuno all’Istituto conosceva abbastanza la fisica temporale pura da potersi tenere al suo livello. Gli sarebbe piaciuto insegnarla, ma non gli era ancora stato assegnato un incarico d’insegnamento o un’aula all’Istituto; l’Unione dei Membri degli studenti di facoltà respinse la sua richiesta. Non volevano mettersi in urto con Sabul.
Con il procedere dell’anno, cominciò a spendere un mucchio di tempo scrivendo lettere ad Atro e ad altri fisici e matematici di Urras. Poche di queste lettere vennero spedite. Alcune le scrisse e semplicemente le stracciò. Scoprì che il matematico Loai An, a cui aveva scritto una lettera di sei pagine sulla reversibilità temporale, era morto da venti anni; si era dimenticato di leggere la premessa biografica del libro di An, Geometrie del Tempo. Altre lettere, che egli cercava di far recapitare dai mercantili di Urras, venivano fermate dagli amministratori del Porto di Anarres. Il Porto era sotto il diretto controllo del CDP, poiché le sue operazioni richiedevano il coordinamento di molti gruppi di produzione, e alcuni dei coordinatori conoscevano lo iotico. Questi amministratori del Porto, con le loro conoscenze particolari e con la loro importante posizione, tendevano ad acquisire la mentalità burocratica: dicevano «no», automaticamente. Diffidavano delle lettere ai matematici, poiché parevano messaggi in codice, e nessuno poteva assicurare loro che non si trattasse di messaggi in codice. Le lettere dirette ai fisici venivano passate se Sabul, che era il loro consulente, le approvava. Egli non approvava quelle che si occupavano di argomenti estranei alla sua branca di fisica Sequenziale. «Non rientra nella mia competenza» egli brontolava, restituendo la lettera. Shevek la mandava ugualmente agli amministratori del Porto, e la lettera gli ritornava indietro con la stampigliatura «Non approvata per l’esportazione».
Portò tutta la questione alla Federativa di Fisica, alle cui riunioni Sabul si prendeva raramente la briga di assistere. Nessuno laggiù dava importanza alla libera comunicazione con il nemico ideologico. Alcuni dei presenti tennero sermone a Shevek per il fatto che lavorava in un campo talmente arcano che, per sua stessa ammissione, non c’era un’altra persona su tutto il pianeta capace di comprenderlo. — Ma si tratta soltanto dal fatto che è un campo nuovo — egli disse, la qual cosa non lo fece approdare a nulla.
— Se è nuovo, condividilo con noi, non con i proprietaristi!
— Da un anno chiedo ogni trimestre di fare un corso. Voi dite ogni volta che non c’è sufficiente richiesta. Ne avete paura perché è nuovo?
Questo non gli procurò alcun amico. Se ne andò incollerito.
Continuò a scrivere lettere a Urras, anche se non ne inviava nessuna. Il fatto di scrivere per qualcuno che poteva capire — che avrebbe potuto capire — gli rendeva possibile scrivere, pensare. In altro modo non gli era possibile.
Le decadi passarono, e così i trimestri. Due o tre volte all’anno giungeva il premio: una lettera di Atro o di un altro fisico di A-Io o di Thu, una lunga lettera, scritta fittamente, fitta di dimostrazioni, tutta teoria dal saluto alla firma, tutta profonda astrusa fisica temporale metamatematico-etico-cosmologica, scritta in una lingua ch’egli non sapeva parlare, da uomini ch’egli non conosceva, che cercavano ferocemente di rintuzzare e distruggere le sue teorie, nemici della sua patria, rivali, stranieri, fratelli.
Per giorni interi, dopo aver ricevuto una lettera, era irascibile e gioioso, lavorava giorno e notte, sprizzava idee come una fontanella. Poi, lentamente, con sforzi disperati, divincolandosi, egli ritornava sulla terra, sulla terra arida, prosciugata.
Stava terminando il terzo anno all’Istituto quando Garab morì. Egli chiese di parlare al suo rito funebre, che venne tenuto, come si usava, nel luogo dove la persona defunta aveva lavorato: in questo caso una delle aule di lezione, nell’edificio dei laboratori di Fisica. Fu lui l’unico oratore. Nessuno studente venne ad assistere; Garab non aveva insegnato negli ultimi due anni. Vennero alcuni anziani membri dell’Istituto, e c’era anche il figlio di Garab, un uomo di mezza età che faceva il chimico agrario nel Nordest. Shevek si mise dove si metteva sempre Garab per fare lezione. Disse a questa gente, con la voce arrochita dalla tosse che ormai lo colpiva ogni inverno, che Garab aveva gettato le fondamenta della scienza del tempo, e che era il massimo cosmologo che avesse mai lavorato all’Istituto. — Noi fisici abbiamo ora la nostra Odo — disse. — L’abbiamo, e non l’abbiamo mai onorata. — Dopo l’orazione, una vecchia lo ringraziò, con le lacrime agli occhi. — Prendevamo sempre il decimo giorno insieme, io e lei, a far le pulizie nel nostro isolato; ci divertivamo così tanto a chiacchierare — disse, rabbrividendo al vento gelido mentre uscivano dall’edificio. Il chimico agrario mormorò convenevoli e scappò via di corsa per trovare il passaggio che lo riportasse nel Nordest. In una collera di dolore, impazienza, senso di futilità, Shevek si allontanò dall’Istituto e si mise a camminare senza meta per le vie cittadine.
Tre anni all’Istituto, e che cosa aveva combinato? Un libro, di cui si era appropriato Sabul; cinque o sei articoli inediti; e un’orazione funebre per una vita sprecata.
Nulla di quanto faceva veniva compreso. Per dirlo più onestamente, nulla di quanto faceva era significativo. Egli non svolgeva alcuna funzione necessaria, personale o sociale. In realtà — fenomeno non raro nel suo campo — si era bruciato a vent’anni. Non avrebbe mai raggiunto qualcosa di più. Era definitivamente giunto al muro.
Si fermò davanti all’auditorium dell’Unione Musicale per leggere il programma della decade. Quella sera non c’era concerto. Si voltò per allontanarsi dal manifesto e si trovò a faccia a faccia con Bedap.
Bedap, sempre sulla difensiva e un po’ miope, non diede segno di riconoscimento. Shevek lo prese per il braccio.
— Shevek! Accidenti, sei proprio tu! — Si abbracciarono, si baciarono, si staccarono, si abbracciarono una seconda volta. Shevek era sopraffatto dall’amore. Perché mai? Non aveva provato molto affetto per Bedap neppure in quell’ultimo anno, all’Istituto Regionale. Non si erano mai scritti, nei tre anni passati da allora. La loro amicizia risaliva agli anni dell’adolescenza, era passata. Eppure c’era dell’amore: fiammeggiava come carboni scossi.
Camminarono, si parlarono, e nessuno dei due si accorse della direzione che prendevano. Gesticolavano e si interrompevano. Le ampie strade di Abbenay erano tranquille nella notte invernale. A ciascun incrocio il pallido lampione creava una polla argentea, in cui si agitava una neve secca, simile a frotte di minuscoli pesci, che rincorreva le loro ombre. Con la neve si era alzato un vento gelido, tagliente. Le labbra insensibili e il battito di denti cominciarono a disturbare la conversazione. Presero l’omnibus delle dieci, l’ultimo, per l’Istituto; il domicilio di Bedap era lontano, alla periferia orientale della città, una lunga camminata nel freddo.