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— Tirin non ha mai lavorato all’aperto nel periodo in cui l’ho conosciuto — lo interruppe Shevek. — Da quando aveva dieci anni. È sempre riuscito a ficcarsi in lavori a tavolino. La Divisione del Lavoro gli ha dato quanto si meritava.

Bedap non gli badò. — Non so bene cosa sia successo, laggiù. Mi scrisse varie volte, e ogni volta da una nuova assegnazione. Sempre lavori fisici, in piccole comunità isolate. Mi scrisse che lasciava l’incarico e tornava nell’Insediamento Settentrionale per vedermi. Ma non arrivò mai. Smise di scrivermi. Infine lo rintracciai tramite gli Archivi del Lavoro di Abbenay. Mi mandarono una copia del suo cartellino, e l’ultima voce era solo: «Cura. Isola Segvina.» Cura! Tirin aveva ucciso qualcuno? Aveva violentato qualcuno? Per che altri motivi ti mandano al Manicomio, oltre a questi?

— Non è vero che ti mandino al Manicomio. Sei tu che richiedi di venire assegnato ad esso.

— Non dirmi queste stronzate — fece Bedap, colto da collera improvvisa. — Tirin non ha mai chiesto di venirvi mandato! Loro l’hanno fatto impazzire, e poi l’hanno sbattuto laggiù. Sto parlando di Tirin; di Tirin: non lo ricordi?

— Lo conoscevo prima ancora di te. E cosa credi che sia, il Manicomio… una prigione? È un rifugio. Se ci sono assassini e scansafatiche cronici, è perché hanno chiesto di recarsi laggiù, dove non sono sottoposti a pressioni, sono liberi da punizioni. E poi, chi è questa gente che continui a citare, «loro»? «Loro l’hanno fatto impazzire», eccetera. Vuoi dire che l’intero sistema sociale è malvagio, che in realtà «loro», i persecutori di Tirin, i tuoi nemici, «loro» siamo noi… l’organismo sociale?

— Se puoi cancellarti dalla coscienza Tirin dicendo che era uno «scansafatiche», allora credo di non avere altro da dirti — rispose Bedap, raggomitolato sulla sedia. C’era un tale dolore, chiaro e semplice, nella sua voce, che la collera ipocrita di Shevek sparì subito.

Per lungo tempo, nessuno dei due parlò.

— Farei meglio ad andarmene a casa — disse Bedap, sciogliendosi faticosamente dalla posizione e alzandosi in piedi.

— C’è un’ora di cammino, da qui. Non dire sciocchezze.

— Be’, io pensavo… visto che…

— Non dire sciocchezze.

— D’accordo. Dov’è il cesso?

— A sinistra. Terza porta.

Quando ritornò, Bedap propose di dormire sul pavimento, ma siccome non c’era tappeto e c’era una sola coperta, la proposta era, come ripeté con voce monotona Shevek, una sciocchezza. Entrambi erano cupi e irosi; accigliati, come se avessero fatto a pugni senza aver sfogato tutta la loro collera. Shevek srotolò il materasso ed entrambi vi si stesero sopra. Spenta la luce, un’oscurità argentea penetrò nella camera: la semioscurità di una notte cittadina, quando c’è neve sul terreno e la luce viene riflessa debolmente verso l’alto dal suolo. Faceva freddo. Ciascuno accolse con piacere il tepore del corpo del compagno.

— Ritiro quanto detto sulla coperta.

— Senti, Bedap, non intendevo…

— Oh, riparliamone domattina.

— Giusto.

Si accostarono maggiormente. Shevek si stese prono, e in un paio di minuti cadde addormentato. Bedap lottò per mantenere la conoscenza, scivolò nel tepore, più profondamente, nell’assenza di difesa, nella fiducia del sonno, e dormì. Nella notte uno di loro pianse forte, a causa di un sogno. L’altro, ancora assonnato, allungò un braccio, mormorando parole rassicuranti, e il peso cieco e tiepido del suo tocco superò tutte le paure.

S’incontrarono nuovamente la sera successiva, e discussero se fosse il caso di unirsi per qualche tempo, come avevano fatto quando erano adolescenti. Occorreva discuterlo, poiché Shevek era decisamente eterosessuale, e Bedap decisamente omosessuale; il piacere della coabitazione sarebbe stato prevalentemente di Bedap. Shevek era pienamente d’accordo, tuttavia, nel riconfermare la vecchia amicizia; e quando si accorse che il suo elemento sessuale aveva una grande importanza per Bedap, che era, per lui, una vera consumazione, allora prese la guida e si assicurò con molta tenerezza e molta ostinazione che Bedap passasse nuovamente con lui la notte. Presero una singola libera in un domicilio del centro, e vi abitarono insieme per una decade; quindi si separarono nuovamente: Bedap ritornò al suo dormitorio e Shevek alla Stanza 46. In nessuno dei due il desiderio sessuale era abbastanza forte da rendere duraturo il vincolo. Avevano semplicemente riaffermato la reciproca fiducia.

Eppure Shevek a volte si domandò, continuando a vedere Bedap quasi quotidianamente, che cosa fosse ciò ch’egli amava, la cosa di cui si fidava, nell’amico. Trovava detestabili le opinioni nutrite in quel periodo da Bedap, e trovava fastidiosa la sua insistenza nel parlarne. Discutevano ferocemente tra loro quasi ogni volta. Si causavano reciprocamente molto dolore. Nel lasciare Bedap, spesso Shevek si accusava di volere soltanto rimanere caparbiamente abbarbicato a una amicizia che ormai aveva fatto il suo tempo, e si riprometteva con rabbia di non rivedere Bedap.

La verità, tuttavia, era che egli amava Bedap, da uomo, più di quanto non l’avesse mai amato da ragazzo. Inetto, insistente, dogmatico, distruttivo: Bedap poteva essere tutto ciò; ma aveva raggiunto una libertà di mente che Shevek cercava, anche se ne odiava l’espressione. Egli aveva cambiato la vita di Shevek, e Shevek lo sapeva: sapeva che finalmente stava andando avanti, e che era stato Bedap a permettergli di andare avanti. Combatté Bedap ad ogni passo del cammino, ma continuò ad avanzare, a discutere, a fare del male e a riceverlo, a trovare — nella rabbia, nella negazione, nel rifiuto — ciò che cercava. Non sapeva che cosa cercasse. Ma sapeva dove cercarlo.

Era, consciamente, un anno altrettanto infelice per lui quanto l’anno che l’aveva preceduto. Continuava a non fare alcun progresso nel suo lavoro; anzi, in realtà aveva abbandonato del tutto la fisica temporale ed era ritornato all’umile lavoro di laboratorio, aiutato da un tecnico abile e taciturno, a studiare le velocità subatomiche. Era un campo molto frequentato, e il suo tardivo ingresso venne accolto dai colleghi come l’ammissione che aveva finalmente smesso di cercare di essere originale. L’Unione dei Membri dell’Istituto gli assegnò un corso d’insegnamento, fisica matematica per studenti del primo anno. Non ricavò alcun senso di trionfo dal fatto che finalmente gli fosse dato un corso, poiché era proprio così: il corso gli era stato dato, gli era stato permesso. Ricavava scarso piacere da ogni cosa. Il fatto che le pareti della sua coscienza rigorosa e puritana si stessero allargando immensamente non gli era affatto di conforto. Si sentiva freddo e sperduto. Ma non aveva luogo in cui ritirarsi, non aveva riparo, così continuò ad addentrarsi nel freddo, perdendosi sempre più.

Bedap si era fatto molti amici, un gruppo instabile e disaffezionato, e alcuni di loro presero in simpatia il giovane timido. Non si sentiva più vicino a loro di quanto non si sentisse vicino alle persone, più convenzionali, ch’egli conosceva all’Istituto, ma trovava assai più interessante la loro indipendenza di mente. Essi conservavano l’autonomia della coscienza anche a costo di diventare degli eccentrici. Alcuni di loro erano dei nuchnibi intellettuali che da anni non lavoravano a un’assegnazione regolare. Shevek li disapprovava severamente, quando non era con loro.

Uno di essi era un compositore chiamato Salas. Salas e Shevek desideravano imparare l’uno dall’altro. Salas conosceva poco la matematica, ma finché Shevek riusciva a spiegare la fisica con modelli analogici o esperienziali, era un ascoltatore intelligente e insaziabile. Allo stesso modo Shevek ascoltava ogni cosa che Salas potesse dirgli sulla teoria musicale, ed ogni cosa da lui suonata su nastro o col suo strumento, la portativa. Ma alcune cose che Salas gli disse gli parvero estremamente preoccupanti. Salas aveva un incarico in un gruppo di escavazione di un canale nella Piana del Temae, ad oriente di Abbenay. Veniva in città nei tre giorni liberi di ogni decade, e andava da una o dall’altra delle ragazze. Shevek aveva dato per scontato che avesse scelto quell’incarico perché voleva un po’ di lavoro all’aperto, tanto per cambiare; ma poi seppe che Salas non aveva mai avuto un’assegnazione in campo musicale, soltanto assegnazioni da manovale non qualificato.