— Come sei elencato alla Divisione del Lavoro? — chiese, perplesso.
— Gruppo di fatica comune.
— Ma sei addestrato! Hai fatto sei, otto anni al conservatorio dell’Unione Musicale, no? Perché non ti assegnano a insegnare musica?
— Mi hanno assegnato. Mi sono rifiutato. Non sarò pronto a insegnare se non tra una decina d’anni. Sono un compositore, ricorda, non un esecutore.
— Ma ci devono essere degli incarichi per compositori.
— E dove?
— All’Unione Musicale, suppongo.
— Ma i membri dell’Unione non amano le mie composizioni. E al momento non ci sono molti altri che le amino. Non posso fare un’unione da solo, non ti pare?
Salas era una persona ossuta e di bassa statura, era già calvo sul cranio e sulla parte superiore del viso; quel che gli restava dei capelli, lo portava corto, a mo’ di frangia chiara che gli copriva il mento e la nuca. Aveva un sorriso dolce, che copriva di rughe il suo volto espressivo. — Capisci, io non scrivo nel modo in cui mi hanno insegnato a scrivere al conservatorio. Scrivo musica disfunzionale. — Sorrise in modo ancora più dolce del solito. — Loro desiderano i corali. Io aborro i corali. Vogliono pezzi ampiamente armonici, come quelli scritti da Sessur. Io odio la musica di Sessur. Ora sto scrivendo un pezzo di musica da camera. Pensavo che potrei chiamarlo Il principio di simultaneità. Cinque strumenti, ciascuno dei quali suona un tema ciclico indipendente; nessuna causalità melodica; il processo in avanti sta completamente nei rapporti tra le parti. Ne viene una bella armonia. Ma loro non lo ascolteranno. Non possono!
Shevek meditò un poco sulle sue parole. — Se lo chiamassi Le gioie della solidarietà — disse, — lo ascolterebbero?
— Accidenti! — disse Bedap, che stava ascoltando. — Questa è la prima frase cinica da te pronunciata in tutta la tua vita, Shevek. Benvenuto nel gruppo!
Salas rise. — L’ascolterebbero, ma non l’accetterebbero per la registrazione o l’esecuzione regionale. Non è nello Stile Organico.
— Niente di strano che non abbia mai ascoltato musica moderna quando ero nell’Insediamento Settentrionale. Ma come possono giustificare questo tipo di censura? Tu scrivi musica! La musica è un’arte cooperativa, organica per definizione, sociale. Forse è la più nobile forma di comportamento sociale di cui siamo capaci. È certamente una delle gioie più nobili che un individuo possa assumersi. E per sua natura, per la natura comune di tutte le arti, è una condivisione. L’artista divide con altri, è questa l’essenza del suo atto. Indipendentemente da ciò che possono dire i membri della tua Unione, come può giustificare, la Divisione del Lavoro, il fatto che non ti sia dato un incarico nel tuo stesso campo?
— Non vogliono condividerla — disse Salas, allegramente. — La temono.
Bedap parlò con maggiore serietà: — Possono giustificarlo perché la musica non è utile. Scavare canali è importante, lo sai; la musica è semplice decorazione. Si è fatto tutto il giro del cerchio, fino a ritornare alla più vile forma di utilitarismo profittatoriale. La complessità, la vitalità, la libertà d’invenzione e d’iniziativa che erano il centro dell’ideale Odoniano, le abbiamo gettate via tutte. Siamo tornati direttamente alla barbarie. Se una cosa è nuova, fuggila subito; se non puoi mangiarla, gettala via!
Shevek pensò al proprio lavoro e non ebbe nulla da obiettare. Eppure non poteva unirsi alla critica di Bedap. Bedap l’aveva costretto a comprendere di essere, in realtà, un rivoluzionario; ma egli sentiva profondamente di essere tale a causa della sua educazione e della sua istruzione di Odoniano e anarresiano. Non poteva ribellarsi contro la sua società, poiché la sua società, giustamente concepita, era una rivoluzione, una rivoluzione permanente, un processo continuo. Per riaffermarne la validità e la forza, egli pensava, bastava soltanto agire, senza timore di punizione e senza speranza di premio: agire dal centro della propria anima.
Bedap e alcuni suoi amici avevano progettato di passare una decade insieme, facendo il giro dei Ne Theras. Egli aveva persuaso Shevek a venire. Shevek amava la prospettiva di dieci giorni sulle montagne, ma non quella di dieci giorni di opinioni di Bedap. La conversazione di Bedap ricordava un po’ troppo le Sedute di Critica, l’attività comune che gli era sempre piaciuta meno, in cui ciascuno si alzava e si lamentava dei difetti di funzionamento della comunità, e, di solito, anche dei difetti del carattere dei vicini. Tanto più s’avvicinava la data della vacanza, tanto meno gliene piaceva l’idea. Ma si ficcò in tasca un quaderno, in modo da poter andar via e pretendere di lavorare, e partì anche lui.
Si incontrarono dietro la stazione dei camion della zona orientale, il mattino presto: tre donne e tre uomini. Shevek non conosceva nessuna delle donne, e Bedap gliene presentò soltanto due. Come si avviarono lungo la strada delle montagne, si portò al fianco della terza. — Shevek — disse.
La donna rispose: — Lo so.
Comprese che doveva già averla incontrata da qualche parte, e che avrebbe dovuto ricordare il suo nome. Le sue orecchie divennero rosse.
— Vuoi scherzare? — fece Bedap, mettendosi alla sua sinistra. — Takver era all’Istituto Settentrionale con noi. Abita ad Abbenay da due anni. Non vi siete più visti da allora?
— L’ho visto un paio di volte — disse la ragazza, e rise, voltandosi verso di lui. Aveva la risata di una persona che ama mangiare bene, una risata larga e infantile. Era alta e piuttosto sottile, con braccia tonde e fianchi ampi. Non era molto bella; aveva volto scuro, intelligente e allegro. Nei suoi occhi c’era un carattere di nero, che non era l’opacità degli occhi scuri e luminosi, ma qualcosa di profondo, che ricordava la cenere nera e spessa, sottile, molto soffice. Shevek, incontrando i suoi occhi, seppe di avere commesso una mancanza imperdonabile nel dimenticarla, e, nello stesso istante, seppe anche di essere stato perdonato. Di essere in fortuna. Che la sua fortuna era cambiata.
Cominciarono a salire sulle montagne.
Nella fredda serata del loro quarto giorno di escursione, egli e Takver sedevano sul ciglio spoglio di una gola. Quaranta metri più in basso, un torrente di montagna scendeva tra le rocce, fra sponde bagnate dagli spruzzi. C’era poca acqua corrente su Anarres; anche l’acqua da tavola era scarsa in molte località; i fiumi erano corti. Solo nelle montagne c’erano acque che scorrevano rapidamente. Il rumore dell’acqua che gridava e picchiettava e cantava era nuovo per loro.
Si erano arrampicati su e giù per simili gole per tutta la giornata, fra le montagne, e avevano male alle gambe. Gli altri del gruppo erano nel Rifugio, una costruzione di pietra eseguita da persone in vacanza per persone in vacanza, ben tenuta; la Federativa dei Ne Theras era il più attivo dei gruppi di volontarii che amministravano e proteggevano le poche zone «panoramiche» di Anarres. Un guardiano antincendi che abitava laggiù nel corso dell’estate aiutava Bedap e gli altri a preparare un pasto con i rifornimenti delle dispense. Takver e Shevek erano usciti, nell’ordine, separatamente, senza dire la loro destinazione e, in realtà, senza saperla.
Egli l’aveva trovata sul ciglio, seduta fra i delicati cespugli di spina di luna, simili a matasse di trina, che crescevano sulle montagne; i rami rigidi e fragili avevano colore argenteo nel crepuscolo. In un varco tra le cime, ad est, la pallida luminosità del cielo annunciava il sorgere della luna. Il ruscello era rumoroso nel silenzio delle montagne alte e spoglie. Non c’era vento, non c’erano nubi. L’aria al di sopra delle montagne era simile ad ametista, dura, chiara, profonda.
Sedevano già da qualche tempo, senza scambiarsi parola.
— Non mi sono mai sentito attratto verso una donna, in tutta la mia vita, come lo sono da te. Fin da quando abbiamo iniziato questa gita. — Il tono di Shevek era freddo, quasi risentito.
— Non intendevo rovinarti la vacanza — rispose lei, con la sua risata larga e infantile, troppo forte per il crepuscolo.