— Non si rovina affatto!
— Ah, bene. Pensavo che volessi dire che ti distraggo.
— Distrarmi! È come un terremoto.
— Grazie.
— Non dipende da te — disse lui, seccamente. — Dipende da me.
— Questo è ciò che credi — rispose.
Ci fu una pausa piuttosto lunga.
— Se desideri copulare — disse lei, — perché non me l’hai chiesto?
— Perché non sono certo che sia la cosa che desidero.
— Neanch’io. — Il suo sorriso era sparito. — Ascolta — disse. La sua voce era morbida, e non aveva molto timbro; aveva la stessa caratteristica soffice dei suoi occhi. — Devo proprio dirtelo. — Ma la cosa che doveva dirgli rimase inespressa per molto tempo. Infine egli la fissò con una tale aria di apprensione e di implorazione che lei si affrettò a dire, tutto d’un fiato: — Ecco, devo dirti che non voglio copulare con te, ora. Né con chiunque altro.
— Hai rinunciato al sesso?
— No! — disse lei, indignata, ma senza spiegazioni.
— Io potrei anche averlo fatto — disse lui, gettando un ciottolo nel ruscello. — Oppure sono diventato impotente. Sarà quasi mezzo anno, e poi era con Bedap. In realtà sarà quasi un anno. Diventava ogni volta meno soddisfacente, e alla fine ho smesso. Non c’era niente. Non ne valeva la pena. Eppure ricordo che so come dovrebbe essere…
— Sì, è così — disse Takver. — Anch’io copulavo molto, per passatempo, fino a diciotto, diciannove anni. Era una cosa emozionante, interessante, piacevole. E poi… non saprei. Come dici tu, diventava insoddisfacente. Non mi interessa il piacere. Il solo piacere, intendo.
— Vuoi bambini?
— Sì, quando sarà il momento.
Egli gettò un altro ciottolo nel ruscello, che ora svaniva nell’ombra della gola, lasciando dietro di sé solamente il suono: un’incessante armonia di suoni disarmonici.
— Io voglio terminare un lavoro.
— E il fatto di essere celibe, ti aiuta?
— C’è un legame. Ma non so quale sia, e non è una connessione di causa ed effetto. All’incirca all’epoca in cui il sesso cominciava a diventarmi insoddisfacente, la stessa cosa mi succedeva per il lavoro. Sempre più. Tre anni senza arrivare a nulla. Sterilità. Sterilità su ogni lato. A perdita d’occhio, un solo deserto arido, bruciato dal calore spietato di un sole senza misericordia, una desolazione senza vita, senza orme, senza scudo e senza copule, qua e là segnata dalle ossa calcinate dei viaggiatori sfortunati…
Takver non rise; emise una risata lamentosa, come se la risata le facesse male. Egli cercò di distinguere chiaramente il suo viso. Dietro la sua testa scura, il cielo era duro e chiaro.
— Che c’è di sbagliato nel piacere, Takver? Perché non lo vuoi?
— Non c’è nulla di sbagliato. E poi, io lo voglio. Solo, non ne ho bisogno. E se prendessi le cose che non mi occorrono, non arriverei mai a prendere quelle che mi occorrono davvero.
— E qual è la cosa che ti occorre?
Ella guardò in basso, facendo scorrere l’unghia sulla superficie di una sporgenza rocciosa. Non disse nulla. Si sporse in avanti per cogliere un rametto di spina di luna, ma non lo raccolse, si limitò a toccarlo, a sentire lo stelo peloso e la foglia delicata. Shevek vide, dalla tensione dei movimenti, che Takver cercava con tutta la forza di trattenere, di frenare una tempesta di emozioni, in modo da poter parlare. E quando parlò, parlò a voce bassa, un po’ bruscamente. — Mi occorre il legame — disse. — Quello vero. Corpo, mente e tutti gli anni della vita. Niente di inferiore.
E alzò lo sguardo su di lui con sfida, forse con odio.
Una gioia stava sorgendo misteriosamente in lui, simile al suono e all’odore dell’acqua corrente che giungevano attraverso l’oscurità. Provava un senso di illimitatezza, di chiarezza, di chiarezza totale, come se fosse stato messo in libertà. Dietro la testa di Takver, il cielo si stava rischiarando con il sorgere della luna; le vette lontane s’innalzavano chiare e argentee. — Sì, è proprio questo — egli disse, privo di imbarazzo, privo del senso di parlare con un’altra persona; diceva ciò che gli veniva in mente, pensoso. — Non me ne ero mai accorto.
Nella voce di Takver c’era ancora un po’ di risentimento. — Tu, non te ne sei mai dovuto accorgere.
— E perché?
— Perché, credo, non ne hai mai visto la possibilità.
— Cosa intendi dire, la possibilità?
— La persona!
Egli pensò a queste parole. Sedevano a circa un metro di distanza l’uno dall’altra, con le braccia strette attorno ai ginocchi poiché stava scendendo il freddo. Il respiro arrivava in gola come acqua ghiacciata. Potevano vedere il loro respiro, il pallido vapore nella luce lunare che si alzava progressivamente.
— Il momento in cui me ne accorsi — disse Takver, — fu la notte prima che tu lasciassi l’Istituto Regionale. C’era una festa, lo ricorderai. Alcuni di noi rimasero a parlare per tutta la notte. Ma è successo quattro anni fa. E tu non conoscevi neppure il mio nome. — Il rancore era scomparso dalla sua voce; pareva desiderasse fornirgli delle scusanti.
— Tu vedesti in me, quella notte, ciò che io ho visto in te in questi quattro giorni?
— Non lo so. Non posso dirlo. Non si trattava soltanto di una cosa sessuale. Io ti avevo già notato prima, sotto quell’aspetto. Ma quella volta fu differente; io ti vidi. Non posso sapere cosa tu veda ora. E allora non sapevo veramente cosa io vedessi. Non ti conoscevo molto bene. Però, quando parlasti, mi parve di vedere chiaro dentro di te, fino al centro. Ma tu potevi essere totalmente diverso dal modo in cui io ti pensavo. Non sarebbe stata colpa tua, in fin dei conti — aggiunse. — Semplicemente, sapevo che ciò che vedevo in te era ciò che mi occorreva. Non solamente ciò che potevo desiderare!
— E sei ad Abbenay da due anni e non…
— Non ho fatto cosa? Era tutto dalla mia parte, nella mia testa, tu non conoscevi neppure il mio nome. Una persona sola non può fare un’unione, dopotutto!
— E avevi paura che, venendo da me, io avrei potuto non desiderare il legame.
— Non paura. Sapevo che eri una persona che… non si sarebbe lasciata forzare… Be’, sì, avevo paura. Avevo paura di te. Non di fare un errore. Sapevo che non era un errore. Ma tu eri… tu. Tu sei diverso da tanti altri, lo sai. Io avevo paura di te perché sapevo che eri un mio uguale! — Il suo tono, nel terminare, era fiero, ma dopo un istante disse molto gentilmente, con tenerezza: — Non ha veramente importanza, sai, Shevek.
Era la prima volta che le sentiva pronunciare il suo nome. Si voltò verso di lei e le disse incespicando, quasi soffocando sulle parole: — Non ha importanza? Prima mi fai vedere… mi fai vedere qual è la cosa importante, la cosa veramente importante, la cosa che mi è mancata per tutta la vita… e poi dici che non ha importanza!
Erano a faccia a faccia, adesso, ma non si erano toccati.
— È quello che ti occorre, allora?
— Sì. Il legame. La possibilità.
— Adesso… per la vita?
— Adesso e per la vita.
Vita, ripeteva il flusso di acqua scorrente sotto di loro, sulle rocce, nella fredda oscurità.
Quando Shevek e Takver tornarono dalle montagne, si trasferirono in una stanza doppia. Non ce n’era nessuna libera negli isolati vicino all’Istituto; ma Takver ne conosceva una non molto distante, in un vecchio domicilio all’estremità nord della città. Per avere la stanza si recarono dall’amministratore delle abitazioni dell’isolato — Abbenay era divisa in circa duecento zone amministrative locali, chiamate isolati — una donna che molava lenti e che teneva in casa i suoi tre bambini piccoli. Per tale motivo teneva le schede delle abitazioni in un ripiano in cima a un armadio, in modo che i bambini non potessero metterci le mani. Controllò che la stanza fosse registrata come vuota. Shevek e Takver la registrarono come occupata apponendo le loro firme.
Neppure il trasloco fu complicato. Shevek portò una scatola piena di carte, i suoi stivali da inverno, e la coperta colore arancione. Takver dovette fare tre viaggi. Il primo ebbe come destinazione il deposito distrettuale di capi d’abbigliamento, per prendere un vestito nuovo a ciascuno dei due, atto che le pareva oscuramente, ma fortemente, essenziale all’inizio del loro legame di compagni. Poi si recò al proprio vecchio dormitorio, una volta per i suoi vestiti e le sue carte, e una seconda volta, con Shevek, per prendere una quantità di curiosi oggetti: complesse strutture concentriche di fil di ferro, che si muovevano in modo lento, cambiando intimamente, quando venivano appese al soffitto. Le aveva fatte lei, con pezzi di filo e arnesi del deposito strumenti per artigiani, e le chiamava Occupazioni di Spazi Disabitati. Una delle due sedie della stanza era decrepita, cosicché la portarono in una bottega di riparazioni, dove ne presero una sana. Con questa, la stanza fu arredata. La nuova stanza aveva soffitto molto alto, e ciò la faceva parere spaziosa e lasciava un mucchio di posto per le Occupazioni. Il domicilio era costruito su una delle basse colline di Abbenay, e la stanza aveva una finestra d’angolo da cui entrava la luce del pomeriggio: da quella finestra si godeva la vista della città, le strade e le piazze, i tetti, il verde dei parchi, la pianura al di là della città.